SENZA LAVORO È PIÙ DIFFICILE PER LE DONNE REAGIRE ALLA VIOLENZA. ECCO I RISULTATI DELLA RICERCA ALI SULLE PARI OPPORTUNITÀ NEI COMUNI

Il Dipartimento Pari Opportunità di Ali, autonomie locali italiane, ha condotto la prima ricerca su scala nazionale sulla percezione delle politiche delle pari opportunità a livello locale con un focus sulla violenza. I risultati evidenziano delle criticità che vale la pena riportare come dati sui quali indirizzare l’azione politica e delle amministrazioni locali.

Dal punto di vista dei cittadini il 51,9% degli intervistati è venuto a conoscenza di episodi di violenza contro le donne (donne il 57% mentre gli uomini 46,4%). Se più della metà della popolazione dunque ha assistito direttamente o indirettamente al verificarsi di atti di violenza il fenomeno ha una diffusione drammatica nel tessuto sociale e costituisce una piaga che non può essere ignorata o dimenticata. Di questi fatti tuttavia le cittadine ed i cittadini intervistati solo il 33,7% per le Donne ed il 36,3% degli uomini sa che sono seguite delle denunce. Una percentuale sconfortante che mette in luce varie fragilità del sistema generale che vale la pena analizzare. Le donne che subiscono violenza fanno molta fatica a denunciare per ragioni che attengono in parte alla loro condizione personale e in parte alla situazione di inefficienza del sistema giustizia. Per quanto riguarda la prima motivazione è la condizione di svantaggio economico in cui versano le Donne –  spesso inoccupate, pagate meno degli uomini, con contratti di lavoro precari, dedicate per anni alla cura dei figli e della famiglia talvolta scelta imposta dal marito/compagno – che rende difficoltoso per loro denunciare il marito o il compagno perché temono di dover lasciare la casa in cui vivono, hanno paura di perdere i loro figli, non hanno risorse per sostentare i figli e loro stesse. Elementi questi che sono un deterrente fortissimo che non le incoraggia ad uscire da questo dramma distruttivo per loro stesse e per la prole. Dall’altra c’è la sfiducia verso un sistema che non reagisce in maniera adeguata alle richieste di aiuto delle Donne che subiscono violenza: perché i ritardi sono enormi, i processi penali difficili e costosi,  perché la presa in carico non avviene tempestivamente ed adeguatamente, perché spesso si imbattono in personale che non è formato per affrontare già da subito il caso che ha davanti e lo minimizza, lo banalizza. Quali sono le priorità che hanno indicato i cittadini e le cittadine intervistate?  Il 57,5% ( le Donne sono il 64,2% e gli uomini il 50,3%) ha richiesto aiuti economici e abitativi per le donne vittime di violenza in modo da renderle indipendenti ed offrire loro la possibilità di allontanarsi da situazioni di violenza fisica e psicologica; il 50,1%  ha chiesto di costringere gli uomini violenti a seguire percorsi riabilitativi; il 50% ha ravvisata la necessità di  favorire un cambiamento di cultura organizzando percorsi formativi obbligatori sulla parità di genere (sia per gli uomini che per le donne; il 46% ha chiesto di puntare maggiormente sulla prevenzione del fenomeno “violenza sulle donne” anziché sulla repressione a posteriori. Su questi filoni deve indirizzarsi l’azione delle amministrazioni locali ciascuna nell’ambito delle proprie competenze dentro un quadro chiaro in cui le Istituzioni assumono un ruolo centrale nella lotta alla violenza contro le donne. Un compito che non può essere delegato ad altri e che semmai deve essere esercitato con altri, senza mai dimostrare disinteresse. Senza mostrare incapacità nel dare l’indirizzo a tutti gli attori chiamati ad intervenire per eliminare questo dramma internazionale e che priva le Donne dei loro diritti fondamentali.

La Convenzione di Istanbul è molto chiara e si concentra sulla particolarità che la violenza maschile ha sulle Donne, nominandola e definendola per quello che è:  violazione di diritti umani. Mai nessuno Stato si sognerebbe di delegare ad altri la tutela dei diritti fondamentali della persona che sono addirittura sovraordinati alle istituzioni che sono chiamate a renderli effettivi con azioni concrete. Il richiamo all’assunzione di responsabilità che viene dalla Convenzione è  chiaro ed inequivocabile. Le Donne qui vengono indicate come parte dell’umanità intera composta dai due sessi, ciascuno di essi portatore di un bagaglio di diritti, uno statuto giuridico della persona diremmo noi giuriste, che non consente deroghe nella tutela ed applicazione. La Convenzione di Istanbul ha anche consentito al nostro ordinamento di raggiungere una maturità legislativa in questa materia che ha fornito tutti gli strumenti anche processuali per consentire alle donne di essere difese e protette. Una legislazione che sulla carta è assai stringente e abbastanza esaustiva, ma che attende una piena applicazione per essere valido strumento di contrasto alla violenza. Non ci sono più alibi, non si può invocare un sistema normativo zoppo, ora serve chiedere un impegno diretto da parte degli amministratori e delle amministratrici per fare in modo che i pronto soccorso siano messi a norma; che gli ufficiali di pubblica sicurezza che ricevono le denunce siano formati; che il mondo dell’informazione sia consapevole nella narrazione dei casi di cronaca; che l’avvocatura prenda coscienza del ruolo che svolge nel seguire i casi di violenza e il diritto di famiglia; che la magistratura non scada nelle retrovie dell’interpretazione delle norme in nome di una società che non esiste più. Insomma ora la palla passa a chi deve tradurre le norme in azioni concrete e lo deve fare senza delegare ai doveri che il proprio compito e la propria funzione richiedono.Solo questo restituisce il senso alla giornata del 25 novembre, altrimenti tutto si trasforma in un triste e decadente show che serve a chi lo celebra nelle aule delle istituzioni e non certamente alle Donne.

Di Andrea Catizone, Direttrice Dipartimento Pari opportunità ALI

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