Su “Italia Oggi” un’intervista a Matteo Ricci, neo presidente di Legautonomie e sindaco di Pesaro. Serve una reazione contro il decreto Salvini e subito una legge per la dignità degli amministratori

“Legautonomie sosterrà una proposta di legge per la dignità degli amministratori, questa è la prima delle tante cose che faremo nei prossimi mesi, è una battaglia fondamentale, perchè un sindaco non può prendere meno di 1.500 Euro netti in busta paga; non è degno per un amministratore fare il sindaco di un piccolo comune con stipendi che non ti consentono di farlo, come non è degno per un amministratore fare il Presidente della Provincia senza indennità. Un presidente di Provincia deve prendere come il sindaco del comune capoluogo. Questa è la proposta che sosteniamo e che ci vedrà impegnati nei prossimi mesi, con iniziative che metteremo in campo in tutto il Paese, cercando di coinvolgere il maggior numero possibile di sindaci e amministratori”. 

Matteo Ricci, classe 1974, sindaco di Pesaro e neo presidente di Legautonomie, ha le idee chiare sul futuro dell’associazione di Via degli Scialoja: “Per questo c’è bisogno della Lega delle Autonomie locali: c’è bisogno in Italia di un’associazione di battaglia, di proposte e di servizi, un’organizzazione che con i suoi sindaci e amministratori può rappresentare un vero e proprio laboratorio del riformismo italiano”.

Presidente Ricci, come sarà da questo punto di vista il rapporto con l’ANCI? “Quando mi è stato chiesto di assumere questa responsabilità, ho voluto subito chiarire quale deve essere il ruolo di Legautonomie: il ruolo della rappresentanza dei comuni e di trattativa con il Governo rimane all’ANCI, anzi Legautonomie deve aiutarla a trovare un punto di mediazione migliore all’interno dell’associazione e deve sostenerla nella trattativa. Legautonomie deve essere un’associazione di battaglia, non dobbiamo fare confusione da questo punto di vista, perché ci sono battaglie che l’ANCI non è in grado oggettivamente di fare, noi si.

Appena eletto presidente al recente Congresso dell’associazione, a Viareggio, ha attaccato Matteo Salvini sul DL sicurezza. “Il decreto-Salvini è veramente dannoso. Avere persone che escono dalla rete di accoglienza, persone senza diritti, senza documenti e senza un percorso integrativo, vuol dire avere più clandestini per le strade, nei parchi, nelle zone più emarginate della tua città,  e quindi significa aumentare il tasso di illegalità nelle nostre città. Il ministro degli Interni, per esempio, dovrebbe prendere i criminali, non applaudire chi spara, perché questo significa il fallimento dello Stato. Non possiamo delegare ai cittadini quello che deve fare lo Stato. Ma a Salvini evidentemente serve così, il caos produce paura e chiusura, e questo si traduce in consensi per la Lega, è un’equazione semplice… Al contrario, i Comuni di Legautonomie devono essere fortemente europeisti. Abbiamo bisogno di un’Europa forte, unita e in grado di giocare un ruolo fondamentale sul tema della globalizzazione. Noi viviamo in una fase di chiusura, di paura. Il riformismo, al contrario, ha dato il meglio di sé in un clima di apertura e quando nella società si sono vissute fasi di speranza. In questo quadro Legautonomie dovrà essere un’Associazione che riesce a mettere insieme battaglie valoriali e proposte di riforme pragmatiche.”

Cosa proponete voi? “Serve una reazione. Una reazione di chi tutti i giorni è chiamato a governare questi processi, di chi crede in quell’integrazione che questo governo sta provvedendo a tagliare, a partire da tutti quegli strumenti, come gli SPRAR, che servivano per garantire un minimo di integrazione . Noi abbiamo interesse a gestire questi fenomeni, mentre chi governa in questo momento è interessato a fomentare lo scontro, perché proprio sullo scontro costruisce la sua propaganda. Per quanto ci riguarda, quando c’è un problema noi iniziamo a verificare quali sono le forze da mettere in campo per una risoluzione giusta e adeguata al problema. Quello che accade oggi, invece, è far leva sul problema per fare propaganda e acquisire consenso, una cosa che i sindaci non possono proprio permettersi, perché la propaganda, nelle città e per i sindaci, dura poco. Legautonomie, dovrà essere un’organizzazione, coraggiosa.  In questo quadro, penso sia giusto rilanciare il tema della cittadinanza per i bambini nati in Italia. Questa è una battaglia culturale che va ripresa con quel coraggio che in passato è venuto a mancare”.

Legautonomie ha portato avanti in questi anni iniziative sociali importanti, ha fatto parte del cartello di associazioni che costituivano l’alleanza contro la povertà in Italia, che ha contribuito all’introduzione del Reis in Italia.  “Dobbiamo essere anche una organizzazione di grande innovazione. Penso all’Agenda 2030 e in generale ai temi della sostenibilità, al cambiamento climatico, al dissesto idrogeologico. Anche su questo punto serve una svolta. Oggi infatti non siamo più all’anno zero, non solo perché l’ONU attraverso l’Agenda 2030 dà degli obiettivi e dà degli indirizzi ai singoli Paesi, ma perché anche in Italia finalmente possiamo avere degli strumenti per misurare la qualità della vita e la qualità della crescita delle nostre città. Il professor Giovannini ha definito un nuovo indicatore del progresso che è il BES, il benessere equo e sostenibile, che della crescita misura alcuni elementi qualitativi: la salute e l’aspettativa di vita, la qualità ambientale, il livello di istruzione, il livello culturale, il livello delle disuguaglianze. Dunque non è più teoria: noi abbiamo un indicatore statistico che ci può consentire di misurare diversamente le nostre città.

Su questo faremo un’iniziativa a breve. Non voglio ripetermi nel ricordare che questo governo ha fatto da subito previsioni di crescita eccessive. Noi cresceremo nei prossimi anni con tassi che variano tra l’1% e il 2%. Che cosa significa questo? Che la partita che si giocherà l’Italia e nel mondo non è più sulla quantità della crescita, ma è sulla sua qualità. Il tema della qualità della crescita diventa un elemento fondamentale per il nostro Paese, perché dentro c’è la nostra bellezza, c’è il genio italiano, c’è la sfida climatica e ambientale, c’è l’istruzione”.

Parliamo di riforme istituzionali. Il 4 dicembre di due anni fa c’è stato un referendum nel nostro Paese che ha bocciato un certo percorso di riforme. Cosa è successo dopo e a che punto siamo? “Non possiamo pensare che tutto il tema delle riforme in questo Paese sia finito il 4 dicembre del 2016. È stata un’occasione persa, ma dopo il 4 dicembre nessuno ha messo in campo un’idea nuova di riorganizzazione degli enti locali e delle istituzioni italiane. Nel contratto giallo-verde non c’è scritto nulla su questi temi. Noi dobbiamo rimettere in campo una proposta organica di riforme”.

Ad esempio? “Noi sappiamo che 8 mila comuni italiani così come li conosciamo non possono reggere. Al tempo stesso sappiamo che i processi calati dall’alto non funzionano. Dobbiamo, innanzitutto, aiutare i Comuni a mettersi insieme, a lavorare insieme. La proposta sulla quale io da tempo lavoro è quella di obbligare i Comuni non a fondersi ma a lavorare insieme, e non per criterio demografico, come erroneamente c’è scritto nella Legge Delrio, perché il criterio migliore che possiamo avere è quello dei bacini omogenei. Perché dentro ogni Provincia noi abbiamo, per motivi storici, per motivi morfologici, per motivi socioeconomici, dei bacini omogenei che possono diventare obbligatoriamente unioni di Comuni, con un meccanismo crescente, per cui più funzioni metti dentro più incentivi hai. Ma chi deve decidere l’ambito omogeneo? I sindaci, che nell’assemblea provinciale decidono quali sono i  bacini omogenei di quella Provincia o di quella città metropolitana. Si deve imporre l’unione come un elemento stabile di governo del territorio e, al tempo stesso, dare ancora più incentivi e ancora più semplificazione a coloro che voglio fondersi; ma le fusioni rimangono volontarie, decise dai territori. E ovviamente c’è un che tema riguarda anche le Province, che devono rimanere case dei comuni. Non tornare all’elezione diretta del presidente della provincia: non possiamo sempre fare un passo avanti e due indietro, cerchiamo di migliorare quello che è stato fatto”.

Le Province restano ma come luogo di semplificazione amministrativa. “Se nell’assemblea delle Province ci sono i sindaci o chi per loro, se nell’assemblea dell’ATO ci sono i sindaci o chi per loro, se nelle ATA dove si decide le tariffe dei rifiuti ci sono i sindaci o chi per loro, perché la Provincia non può essere ATO e ATA? Allora facciamo diventare le Province luogo di semplificazione amministrativa: soggetto costituzionalmente riconosciuto, casa dei Comuni e luogo di semplificazione”.

E poi ci sono le Regioni. “In questi anni ogni qual volta i Comuni e le Province erano in difficoltà la tendenza alla centralizzazione regionale è aumentata. Le Regioni sono nate per fare le leggi e per fare la  pianificazione, non per gestire. Allora io credo in un modello nel quale, fatta salva la sanità, le Regioni devono fare il loro mestiere e aiutare i Comuni e le Province a fare il loro. Qui si inserisce anche il tema dell’autonomia. Hanno fatto bene i presidenti di Regione ad aprire trattative ‘dentro’ la Costituzione rispetto alle possibilità di autonomismo. Ma può questo essere un problema che riguarda solo alcune Regioni del nostro Paese? O è un problema nazionale, di riorganizzazione nazionale? Non ci può essere inoltre più autonomia delle Regioni se le Regioni rimangono piccole. E quindi se vogliamo ragionare su una riforma dell’autonomismo regionale abbiamo bisogno di ragionare anche su cosa devono essere le Regioni, che forza e  dimensioni devono avere. Se vogliamo affrontare con serietà questo tema abbiamo bisogno di costruire una riforma complessiva del sistema regionale”.

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