Siamo in una fase di emergenza economica, caratterizzata dall’esigenza di dare liquidità al sistema produttivo. Ma non si riescono a spendere 220 miliardi già stanziati per infrastrutture, che potrebbero rappresentare un fattore trainante della ripresa
Le risorse congelate dei lavori pubblici I dati del Rapporto annuale sulle infrastrutture strategiche e prioritarie attestano che i lavori pubblici potrebbero costituire uno dei settori trainanti della crescita economica: il fabbisogno di infrastrutture strategiche ammonta a 273 miliardi di euro, di cui 219 per opere prioritarie, e risulta assistito da una copertura finanziaria pari a 199 miliardi (73 per cento del costo complessivo), di cui 155 di contributo pubblico e 44 di risorse private. Queste potenzialità, però, vengono sfruttate in minima parte, dato che soltanto l’11 per cento dei lavori finanziati è stato ultimato, la metà risulta in fase di progettazione, il 21 per cento è in corso e il 5 per cento della spesa con copertura finanziaria riguarda lavori aggiudicati ma non avviati. Secondo i rapporti del nucleo di valutazione dell’Agenzia per la coesione territoriale, infatti, per realizzare opere, anche piccolissime, sotto i 100 mila euro, servono in media due anni e tre mesi, mentre per le grandi opere si arriva a circa 15 anni e 8 mesi. Oltre la metà della durata dei lavori (il 54,3 per cento) è dovuta ai cosiddetti “tempi di attraversamento”, tempi morti tra la fine di un procedimento e l’inizio di quello successivo. Pur in una fase di emergenza economica, caratterizzata da una pressante esigenza di liquidità del sistema produttivo, non si riesce a trasformare in infrastrutture e pagamenti alle imprese circa 200 miliardi già stanziati e disponibili. Al di là dell’importo, ciò che conta è che si tratta di investimenti in grado di stimolare un considerevole effetto moltiplicatore, amplificando i risultati finanziari delle risorse investite: la costruzione di opere pubbliche, infatti, comporta un largo impiego di capitale umano e l’attivazione di un circolo virtuoso di occupazione, aumento dei redditi e incremento dei consumi essenziale per lo sviluppo economico. A ciò bisogna aggiungere i benefici indiretti delle infrastrutture che, facilitando i trasporti e la mobilità, aumentano la competitività del sistema produttivo, favoriscono l’utilizzo razionale del territorio e l’incremento dei flussi turistici, migliorano la qualità della vita.
I danni dell’iper-regolamentazione Il congelamento dell’ingente mole di risorse ad alto valore aggiunto dipende dalla proliferazione di regole, adempimenti e controlli previsti della disciplina nazionale, e da una vasta gamma di disfunzioni dell’assetto istituzionale e dell’attività amministrativa, contrattuale e finanziaria: sovrapposizione di competenze e conflitti fra amministrazioni pubbliche, carenze della programmazione, sostanziale non attuazione degli strumenti di semplificazione vigenti, difficoltà di gestione delle procedure di gara e delle fasi successive all’aggiudicazione, alto livello di contenzioso. Le procedure contabili ostacolano la spesa anche in relazione alle risorse disponibili nei bilanci pubblici, le disposizioni del codice degli appalti prevedono oneri, regole e adempimenti non previsti dalle direttive comunitarie, gli iter di approvazione dei piani di investimenti pubblici, ingolfati da una miriade di adempimenti e passaggi politico-burocratici, congelano risorse per svariati miliardi: l’impasse del contratto di programma delle gruppo Ferrovie, ad esempio, ha bloccato circa 22 miliardi, stanziati nel 2017. La Corte dei conti ha di recente rilevato la “sempre maggiore complessità della materia dei contratti pubblici” la “iper-regolamentazione” del settore, “affollato da norme molteplici e disomogenee”, e ha evidenziato carenze nella programmazione delle spese, criticità nelle modalità di affidamento dei contratti, con particolare riguardo alla scelta delle procedure di aggiudicazione, “varie irregolarità e criticità gestionali”, “una dinamica lenta nello spendere risorse per gli investimenti”, vari casi di ritardo nell’avvio dell’iter di affidamento di servizi necessari, eccessiva frammentazione delle stazioni appaltanti (oltre 32 mila), difficoltà di aggiudicazione delle gare svolte dai soggetti aggregatori (come le centrali di committenza), difficile compatibilità delle norme di spending review con la disciplina dell’attività contrattuale delle pubbliche amministrazioni, difficoltà da parte delle stazioni appaltanti di applicare correttamente la normativa, problematicità nella fase dell’esecuzione degli appalti. Per sfruttare le enormi potenzialità del settore dei lavori pubblici, pertanto, si rivela indispensabile l’adozione tempestiva di misure di razionalizzazione della disciplina dei contratti pubblici, che migliorino la capacità dell’amministrazione di spendere presto e bene. Sono state formulate diverse proposte di riscrittura della disciplina degli appalti, di congelamento del codice per tutta la durata dell’emergenza, di estensione del cosiddetto modello Genova, incentrato sulla deroga generalizzata a tutte le regole di aggiudicazione ed esecuzione dei contratti pubblici, eccetto quelle di natura penale. Tuttavia, due recenti comunicazioni della Commissione europea e dell’Anac hanno evidenziato che, a prescindere da specifici e auspicabili interventi normativi, molte delle criticità che rallentano la spesa per infrastrutture potrebbero essere rimosse sfruttando adeguatamente le norme di semplificazione previste dal codice degli appalti e dalla legislazione speciale. Queste norme consentono, ad esempio, l’accelerazione delle procedure di aggiudicazione attraverso la riduzione dei termini di presentazione delle domande e delle offerte, l’esecuzione immediata dei lavori e l’acquisizione di forniture anche prima della stipulazione del contratto di appalto (in casi di urgenza), la concentrazione dei livelli di progettazione, la possibilità di assegnare gli appalti senza pubblicare i bandi di gara (in presenza di determinate circostanze), il ricorso ad autodichiarazioni e controlli ex post, la semplificazione e accelerazione della procedura di valutazione dell’interesse archeologico e delle fasi di verifica preventiva della progettazione e approvazione dei relativi progetti, l’intensificazione del ricorso alle procedure semplificate previste dalle direttive europee e dal codice degli appalti (dialogo competitivo, procedura competitiva negoziata, consultazioni preliminari di mercato, appalti pre-commerciali, partenariato per l’innovazione, criteri di selezione flessibili propedeutici agli affidamenti concessori), che invece, secondo le statistiche europee, in Italia vengono utilizzate molto meno rispetto alla media europea per l’affidamento degli appalti di rilevante importo. Ciò consentirebbe di conseguire una notevole accelerazione delle procedure di aggiudicazione senza necessità di attivare il complesso iter legislativo, che per un settore delicato e complesso come gli appalti, richiederebbe tempi poco compatibili con le esigenze di tempestività imposte dalla crisi. Razionalizzata la disciplina normativa, bisognerebbe inoltre strutturare efficaci strumenti di monitoraggio dello stato di avanzamento degli investimenti e dei lavori, prevedere la riprogrammazione delle risorse investite in opere incagliate per finanziare interventi urgenti e immediatamente eseguibili, favorire la corretta applicazione della disciplina sugli appalti attraverso programmi di professionalizzazione e specializzazione delle risorse umane interne alle pubbliche amministrazioni che operano nel settore degli appalti, procedere all’aggregazione delle 32 mila stazioni appaltanti e accrescerne la competenza tecnica. Da lavoce.info, di Dario Immordino