“INTESA STORICA SUL RECOVERY FUND DA 750 MILIARDI”. I SUSSIDI CALANO A 390 MILIARDI, RESTA IL “FRENO D’EMERGENZA” CHIESTO DA RUTTE

Un taglio netto ai fondi per la Sanità, per la ricerca e pure a quelli per la transizione energetica. La rinuncia a fissare per la riluttante Polonia chiare condizioni legate agli obiettivi climatici. Un meccanismo per vincolare i fondi Ue al rispetto del diritto nettamente indebolito su richiesta di Viktor Orban. Per fare la Storia servono i compromessi. E in questo l’Europa dei governi è bravissima. Ecco dunque il prezzo da pagare per lo storico accordo sulle cifre del Recovery Fund che è stato raggiunto questa mattina all’alba del quinto giorno di trattative dai 27 leader, rimasti al tavolo tutta la notte ma solo per discutere gli ultimi dettagli del piano.

L’Unione europea compie un passo senza precedenti, che le consentirà di finanziare con 750 miliardi di debito comune la ripresa economica dopo la più grave crisi dal secondo dopoguerra. L’intesa è arrivata alle 5.31: per soli 34 minuti non è stato battuto il record di durata del summit di Nizza del 200.

“La magia dell’Europa funziona” sorride Charles Michel accanto a Ursula von der Leyen. Che si è detta un po’ “rammaricata” per i tagli ai programmi Ue decisi dai leader “per trovare un compromesso”, ma felice per “il livello di fondi senza precedenti”. La presidente della Commissione ha ricordato che “chi vuole i fondi deve rispettare le raccomandazioni”. Anche Angela Merkel ed Emmanuel Macron si sono presentati fianco a fianco in sala stampa, come del resto in tutti questi giorni di vertice. Orgogliosi di aver proposto, sostenuto e difeso questo piano: “Quando Francia e Germania agiscono insieme – ha esordito il capo dell’Eliseo, visibilmente soddisfatto per il risultato -, non possono fare tutto. Ma nulla succede se non lavorano insieme”. Ha ammesso che “è stata una trattativa difficile, caratterizzata da opposizioni e visioni diverse dell’Europa”. Dalla finlandese Sanna Marin allo spagnolo Pedro Sanchez, dal croato Andrej Plenkovic all’ungherese Viktor Orban e via dicendo: al termine del summit tutti i leader hanno rivendicato i rispettivi successi nazionali. Come se nessuno avesse fatto concessioni.

La svolta è arrivata nel pomeriggio di ieri, anche se il terreno era stato preparato nella notte precedente. Al quarto giorno consecutivo di negoziati, Charles Michel (sempre ispirato da Merkel e Macron) è riuscito a trovare la chiave per mettere tutti d’accordo e al tempo stesso salvaguardare il volume totale del piano proposto dalla Commissione. Ma ha dovuto cambiare la ripartizione dei 750 miliardi del “Next Generation EU”: le sovvenzioni scendono a 390 miliardi (erano 500) e i prestiti salgono a quota 360. Un risultato frutto del pressing dei Paesi frugali che hanno insistito per portare la cifra dei “grants” sotto la soglia dei 400 miliardi, considerata un limite invalicabile per Emmanuel Macron. Alla fine il presidente francese ha dovuto cedere quei 10 miliardi che consentono ad Austria, Paesi Bassi, Svezia e Danimarca di cantare vittoria. Anche perché i quattro si portano a casa ulteriori sconti nella loro quota di versamenti al bilancio Ue.

Ancora presto per fare un calcolo esatto delle quote che spetteranno a ogni Paese, ma il governo italiano è convinto di aver salvaguardato gli 81,4 miliardi di sovvenzioni previsti nella proposta della Commissione. Questo perché la fetta di “grants” della “Recovery and Resilience Facility”, lo strumento per finanziare le riforme negli Stati membri, rimane pressoché uguale (sale da 310 a 312,5 miliardi). E anche perché l’altro programma che vede l’Italia tra i principali beneficiari – RescEu, destinato alle regioni più colpite – scende di poco (da 50 a 47,5 miliardi). Per Roma crescerebbe nettamente la quota di prestiti a disposizione: da 91 a 127 miliardi secondo le stime.

Gli 81,4 miliardi inizieranno ad arrivare verosimilmente a partire dalla primavera 2021 e andranno spesi in fretta: entro il 2023. Dovranno servire per finanziare le riforme proposte dal governo sulla base delle raccomandazioni della Commissione. Sull’iter di approvazione dei piani nazionali, alla fine l’ha spuntata Mark Rutte, che ha incassato il cosiddetto “freno di emergenza” per poter congelare l’erogazione dei fondi verso un Paese in caso di non rispetto della tabella di marcia delle riforme. Resta al Consiglio il potere di approvare (a maggioranza qualificata) i piani nazionali.

Successivamente qualsiasi governo potrà sollevare la questione e chiedere al presidente del Consiglio europeo di affrontarla. Il tema dovrà essere “discusso in maniera esaustiva” nel giro di tre mesi: nel frattempo la Commissione dovrà congelare il pagamento delle rate. Soddisfatto Rutte: “A me va benissimo”. Nella notte Giuseppe Conte ha tentato un ultimo assalto per annacquare quel passaggio, ottenendo la modifica di alcuni aggettivi che lasciano però inalterato l’impianto del meccanismo. Un solo Paese potrà tirare il freno e bloccare per tre mesi i pagamenti.

da “La Stampa”

Alleghiamo le Conclusioni del Consiglio europeo, 17-21 luglio 2020

 

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