Il Consiglio di Stato, sezione V, nella sentenza n. 7462 del 27 novembre 2020, che pubblichiamo, individua gli elementi specifici che comportano l’applicazione del divieto di “pantouflage” (dipendente pubblico che si avvantaggia conseguendo un’attività presso imprese private) previsto dall’art. 53, comma 16-ter del d.lgs. n. 165/2001. Il divieto vale per i soli dipendenti che, negli ultimi tre anni di servizio, hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle pubbliche amministrazioni o degli enti da esse controllati.
La disposizione, infatti, stabilisce che i dipendenti di amministrazioni pubbliche che hanno esercitato poteri negoziali (quindi, ad esempio, soggetti con possibilità di adottare atti di affidamento e di stipulare contratti) non possono svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri.
La norma prevede inoltre che i contratti conclusi e gli incarichi conferiti in violazione di quanto previsto dal presente comma sono nulli ed è fatto divieto ai soggetti privati che li hanno conclusi o conferiti di contrattare con le pubbliche amministrazioni per i successivi tre anni con obbligo di restituzione dei compensi eventualmente percepiti e accertati ad essi riferiti.
I giudici amministrativi chiariscono anzitutto la portata applicativa dell’art. 53, comma 16-ter del d.lgs. n. 165/2001 in chiave soggettiva, evidenziando come non possa risultare applicabile a dipendenti addetti a compiti esecutivi variabili e non complessi, pertanto, per tale configurazione del loro ruolo nell’organizzazione dell’amministrazione di appartenenza, sicuramente non in grado di esercitare quei poteri autoritativi o negoziali che impediscono assunzioni o incarichi da parte di soggetti privati.
Il Consiglio di Stato rileva, inoltre, come la norma, riferita alle pubbliche amministrazioni, si estenda anche ai soggetti da essa controllati, come enti pubblici o privati, in base a quanto stabilito dall’art. 21, comma 1 del d.lgs. n. 39/2013.
Tale disposizione, infatti, prevede che ai soli fini dell’applicazione dei divieti di cui al comma 16-ter dell’articolo 53 del d.lgs. n. 165/2001 sono considerati dipendenti delle pubbliche amministrazioni anche i soggetti titolari di uno degli incarichi previsti dallo stesso decreto sulle inconferibilità e sulle incompatibilità, ivi compresi i soggetti esterni con i quali l’amministrazione, l’ente pubblico o l’ente di diritto privato in controllo pubblico stabilisce un rapporto di lavoro, subordinato o autonomo.
La sentenza del Consiglio di Stato n. 7462/2020 focalizza l’attenzione anche su un altro tema delicato, ossia la sussistenza o meno di un conflitto di interessi in capo ai dipendenti di una stazione appaltante, chiamati a far parte di una commissione giudicatrice deputata a valutare, tra le offerte presentate in gara, quella della società della quale l’ex dipendente (a suo tempo senza poteri negoziali) è amministratore.
I giudici amministrativi assumono necessariamente a presupposto l’art. 42 del d.lga. n. 50/2016, sulla prevenzione dei conflitti di interesse, il quale prevede al comma 2 che si ha conflitto d’interesse quando il personale di una stazione appaltante o di un prestatore di servizi che, anche per conto della stazione appaltante, interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione degli appalti e delle concessioni o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, ha, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza nel contesto della procedura di appalto o di concessione. In particolare, costituiscono situazione di conflitto di interesse quelle che determinano l’obbligo di astensione previste dall’articolo 7 del decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 62.
Nella sentenza viene ad essere evidenziato come dalla norma si possa pacificamente desumere che il conflitto non può sussistere in via astratta basandosi su un pregresso rapporto di colleganza in cui non era nemmeno dimostrato se i componenti della commissione di gara lavoravano nello stesso ufficio dell’ex dipendente, ora amministratore della società partecipante alla gara, ma deve fondarsi per lo meno su indizi concreti che dimostrino la sussistenza di un interesse comune tra concorrenti e commissari.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha infatti sempre affermato che nelle procedure di gara pubblica l’esistenza del conflitto di interessi ex art. 42, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 nell’affidamento di una determinata attività ad un funzionario che, contestualmente, sia anche titolare di interessi personali o di terzi non può essere predicata in via astratta, dovendo essere accertata in concreto sulla base di prove specifiche ed in ogni caso.
Consiglio di Stato – V sez. – sentenza n. 7462 del 27-11-2020