Tributi locali: il 50% dei Comuni ha elevato quasi al massimo le aliquote Imu e Tasi. Un Dossier del Centro Studi Enti Locali

Pubblichiamo un dossier sui tributi locali elaborato dal Centro Studi Enti Locali. Un disegno federalista rimasto, in larga misura, incompiuto. Aliquote a lungo bloccate e portate, da un Comune su due, a un passo dai livelli massimi applicabili. Imposte che cambiano continuamente nome, natura e perimetro applicativo e con le quali si fatica a stare al passo. È il mondo dei tributi locali italiani che, a dispetto delle più pessimistiche previsioni, sembra aver tenuto più che degnamente il colpo della pandemia, facendo registrare nel 2020 una flessione globalmente contenuta.

Ma quali sono le imposte su cui si fonda il sistema della fiscalità comunale?

A fare la parte del leone, in termini di gettito e vastità della platea di contribuenti, sono: l’Imposta municipale propria (Imu), il Tributo sui servizi indivisibili (Tasi) e la Tassa sui rifiuti (Tari). In altre parole, le 3 voci che la Legge di stabilità del 2014 ha riunito sotto il “cappello” dell’Imposta unica comunale (Iuc), che ha sempre avuto una regolamentazione molto instabile e una natura altrettanto controversa.

Questi si basano rispettivamente su: possesso di immobili (Imu), erogazione e fruizione dei servizi comunali (Tasi) e copertura costi del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti (Tari).

Ici, Tia, Tarsu, Tares: sono solo alcuni dei nomi dei predecessori di questi tributi In particolare, la disciplina dell’Imu e la decisione di tassare o meno la prima casa è stata più volte oggetto di modifiche e inversioni di rotta, soprattutto a ridosso delle campagne elettorali dell’ultimo decennio.

Non è un mistero, infatti, che poche tasse risultino indigeste agli italiani come quella che riguardano le case di proprietà; un fenomeno non certo marginale in un Paese come il nostro in cui – stando ai dati Istat riferiti al 2018 – sono proprietari della loro abitazione ben 7 famiglie su 10 (quasi 19 milioni).

Non tutti i proventi di questi tributi finiscono però direttamente nelle casse dei Comuni. Una quota dell’Imu (il 22% del gettito ad aliquota standard, pari a 2,8 miliardi di euro) va infatti ad alimentare il “Fondo di solidarietà comunale”. Istituito nel 2011, anche con finalità perequative, questo viene gestito dal Viminale che ne stabilisce poi il riparto tra gli Enti. Quest’anno la dotazione del Fondo è di 6.868,7 milioni di euro, mentre nel 2022 e 2023 sarà pari rispettivamente a 7,1 e 7,2 miliardi. I criteri di riparto di questi denari tra gli Enti sono molto complessi e articolati e tengono conto, tra le altre cose, della capacità fiscale e dei fabbisogni standard.

Il risultato è che le risorse vengono distribuite in modo disomogeneo, tendenzialmente a vantaggio delle Regioni del centro-sud nelle quali gli importi pro-capite sono sensibilmente più alti. Basti pensare ai due estremi: Basilicata e Liguria. Mentre ai cittadini lucani sono stati assegnati, nel 2020, a titolo di “Fondo di solidarietà comunale”, 191 euro medi pro-capite, a quelli liguri sono andate mediamente 50,8 euro.

Al di là delle già menzionate Imu, Tasi, Tari e Addizionale comunale all’Irpef, l’attuale assetto del governo delle entrate locali comprende:

  • Imposta di soggiorno

Figlia anch’essa del Dlgs. 23 del 2011 (federalismo municipale), l’Imposta di soggiorno può essere istituita da Comuni capoluogo di Provincia, Unioni di Comuni e Comuni inclusi negli elenchi regionali delle località turistiche o città d’arte. Sono 1.020 gli enti che si sono avvalsi di questa possibilità e 23 quelli che applicano invece il contributo di sbarco, per un gettito complessivo pari a oltre 600 milioni di euro (dati Federalberghi riferiti al 2019).

Il gettito di questa Imposta, che può arrivare sino a 5 Euro per ogni notte di soggiorno, deve essere impiegato per finanziare: interventi in materia di turismo (anche a sostegno delle strutture ricettive); interventi di manutenzione, fruizione e recupero dei beni culturali e interventi sui relativi servizi pubblici locali.

  • Contributo di sbarco

Più recente invece l’esordio del contributo di sbarco (la norma che lo ha istituito è del 2015). Così come l’Imposta di sbarco, è alternativo all’Imposta di soggiorno. L’importo massimo è di 2,50 euro, innalzabili fino a 5 in via transitoria, in particolari circostanze.

È applicabile ai passeggeri che sbarcano sul territorio di un’isola minore a bordo di vettori che forniscono collegamenti di linea o commerciali e viene riscossa dalle compagnie di navigazione e aeree o dei soggetti che svolgono servizio di trasporto di persone a fini commerciali.

I proventi sono anche in questo caso vincolati e devono essere utilizzati per finanziare interventi di raccolta e smaltimento dei rifiuti, interventi di recupero e salvaguardia ambientale, ma anche provvedimenti in materia di turismo, cultura, polizia locale e mobilità nelle isole minori.

  • Imposta di scopo (Iscop)

L’Imposta di scopo, disciplinata dalla Finanziaria 2007, può essere istituita dai Comuni allo scopo di finanziare delle opere pubbliche. Questa grava sui proprietari di fabbricati, aree edificabili, terreni agricoli, titolari di diritto di usufrutto, uso, abitazione, superficie, enfiteusi. Inizialmente era stata ammessa la possibilità di finanziare solo parzialmente le opere attraverso questo canale. Poi, nel 2011, questo vincolo è stato rimosso ed è stata elevata da 5 a 10 anni la durata massima della sua applicazione.

  • Canone unico patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria

Ultimo nato della famiglia dei tributi locali, il Canone unico patrimoniale ha fatto il suo esordio il 1° gennaio scorso.

Al fine disemplificare la vita dei contribuenti e razionalizzare, rendendola più efficiente, la riscossione di queste entrate, sono state accorpate sotto questa unica voce: la Tassa per l’occupazione del suolo pubblico (Tosap), l’Imposta comunale sulla pubblicità /diritto sulle pubbliche affissioni, il Canone di installazione di mezzi pubblicitari (Cimp) e quello per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (Cosap).

L’impatto della crisi

Stando a quanto riportato nel bollettino sulle entrate tributarie degli enti territoriali elaborato dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, nel 2020 Addizionale regionale e comunale all’Irpef, Irap (competenza regionale), Imu/Imis e Tasi hanno avuto un gettito complessivo pari a 53,7 miliardi di euro contro il 58,7 del 2019.

La flessione non è stata però generalizzata. A ben vedere, sono solo due le voci caratterizzate da un calo (Tasi, -89,4% e Irap, -20,8%), mentre in tutti gli altri casi – a dispetto della congiuntura tutt’altro che favorevole e delle molte esenzioni disposte per tamponare l’effetto crisi pandemica – il saldo è stato positivo. Per l’addizionale regionale all’Irpef, si osserva un +5,6%, per quella comunale +1,3% e, per quanto riguarda Imu e Imis, il gettito 2020 è stato pari a 16.948 milioni di euro contro i 16.301 dell’anno precedente.

A osservarlo è stata anche la Corte dei conti nella “Relazione sulla gestione finanziaria di Comuni, Province, Città metropolitane per gli esercizi 2019-2020”, diffusa il 22 giugno scorso, dalla quale emerge che la gestione della cassa 2020 non ha mostrato i segni delle “temute tensioni”, sia per il “più che adeguato sostegno alle immediate esigenze di risorse, reso disponibile sin dal marzo 2020 con l’erogazione di acconti, che per le contenute erogazioni di maggiore spesa corrente emergenziale”. La flessione delle entrate tributarie è stata, dunque, molto più contenuta del previsto (-6,1%) ed abbondantemente compensata dai trasferimenti derivanti dallo Stato.

“I maggiori decrementi di entrate, a parte quello relativo alla tassa rifiuti, – si legge – sono da imputarsi alla tassazione ‘minore’ (Tassa occupazione spazi e aree pubbliche, Imposta sulla pubblicità, Imposta di soggiorno) che nel rapporto di composizione del Titolo 1 hanno un peso limitato. Non si apprezzano, invece, scostamenti particolarmente significativi per i gettiti Imu e Addizionali Irpef”.

Il disegno del Federalismo fiscale incompiuto

Stando al disegno iniziale, delineato dal Decreto legislativo 23 del 2011, i Comuni avrebbero dovuto avere ampi margini di autonomia impositiva e il criterio della cosiddetta spesa storica avrebbe dovuto essere progressivamente abbandonato in favore di criteri, come la determinazione del fabbisogno determinato secondo i costi standard, che aiutassero a superare le croniche differenze di velocità a cui viaggiano diverse parti del Paese.

In realtà, la grave crisi economica in cui è precipitato l’Italia sul finire del 2011, unita ad altre criticità, ha cambiato le carte in tavola, facendo sì che l’ampia “manovrabilità” delle aliquote Imu e Tasi, inizialmente prevista, fosse addirittura azzerata nel triennio 2016-2018. Solo con la Legge di bilancio 2019 è stata nuovamente concessa ai Comuni la facoltà di decidere se applicare delle maggiorazioni (entro determinati range) alle aliquote e, stando all’Agenzia delle Entrate, sono stati ben pochi gli Enti che non hanno colto la palla al balzo per dare respiro alle proprie casse.

Più di metà dei Comuni italiani ha elevato quasi al massimo le proprie aliquote Imu e Tasi e solo il 5% delle Amministrazioni ha ancora a disposizione un margine di manovra superiore al 30% del gettito potenziale massimo. Diversa la situazione relativa all’Addizionale comunale Irpef, che è invece stata elevata al massimo solo da un Ente su 3 e per la quale il 30% delle Amministrazioni locali dispone ancora di un margine di manovrabilità superiore al 50% del gettito potenziale massimo del tributo.

Di fatto, quindi, il percorso autonomistico è rimasto ampiamente incompiuto e, soprattutto a livello comunale, gli spazi reali di manovra sono praticamente ridotti al lumicino e lontani da quegli standard per i quali erano state gettate le basi con la riforma del Titolo V della Costituzione ben due decenni fa.

 

Fonte:entilocali-online.it

 

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