Fino alla metà del secolo scorso, l’idea che la crescita demografica potesse minacciare seriamente gli equilibri ambientali non si era ancora chiaramente delineata. Nel frattempo la popolazione del mondo si è triplicata, la capacità produttiva e di consumo è cresciuta di quindici volte, e il riscaldamento globale, dovuto a fattori antropogenici, è diventato una indubbia realtà. Finalmente anche la politica internazionale, i cui attori di norma suonano spartiti diversi e discordanti, sta prendendo atto della necessità di interventi coordinati per frenare gli effetti negativi di attività umane incontrollate. Trattandosi di un argomento “sensibile”, la questione demografica viene evitata nel dibattito ufficiale, anche se la verosimile aggiunta di tre miliardi di persone alla popolazione del globo prima della fine del secolo, provocherà ulteriori tensioni nel rapporto delicato tra umani e ambiente. Efficienti politiche sociali nelle regioni a maggiore crescita demografica potrebbero rallentare ulteriormente la crescita in atto, attenuando le tensioni di cui sopra. Occorre ricordare che circa i due terzi delle terre emerse risultano oggi antropizzate, mentre lo erano in minima parte due secoli fa. Antropizzate direttamente, con insediamenti abitativi, commerciali e industriali, con infrastrutture e coltivazioni. Oppure indirettamente, con pascoli e foreste gestite. Insomma, lo spazio del pianeta è limitato, e va utilizzato dagli umani con cautela crescente.
Squilibri demografici e regioni costiere
Non basta, però, che la popolazione del mondo rallenti e poi arresti la sua crescita verso la fine del secolo, come suggeriscono recenti proiezioni.1 Occorre anche che la sua distribuzione sul pianeta non accentui alcuni squilibri pericolosi. La crescita demografica e le migrazioni stanno aggravando la pressione umana nelle aree fragili come lo sono, ad esempio, le regioni delle foreste pluviali, Amazzonia in testa; o le aree umide necessarie alla biodiversità; o le delicate fasce fluviali e costiere. È in queste ultime che la pressione demografica sta accentuando la sua spinta; circa due miliardi e mezzo di persone – il 40 percento della popolazione mondiale – vivono a meno di 100 chilometri dalla costa, e oltre 600 milioni risiedono in aree costiere che hanno un’altitudine inferiore a 10 metri sul livello del mare e sono quindi vulnerabili a causa di inondazioni e maremoti. E più vulnerabili diventeranno in conseguenza del riscaldamento, che determina un innalzamento del livello del mare, e una maggiore frequenza di fenomeni atmosferici violenti. Tra i grandi plessi urbani (semplificando: città) con 5 milioni di abitanti o più, tre su quattro si trovano sulle rive del mare, o in delta di fiumi che sboccano in mare, e poiché le città sono “bombe” di energia, e fonti inesauribili di inquinamento aereo, terrestre e marino, la loro crescita rappresenta una seria minaccia all’integrità dell’ambiente.
Nella Figura 1 è riportata la distribuzione planetaria delle città nel 1990 e quella che con tutta probabilità si consoliderà nel 2030. In questo quarantennio, le megacittà con più di 10 milioni di abitanti passano da 10 a 43, quelle con popolazione tra i 5 e i 10 milioni crescono da 21 a 46, mentre le città “piccole”, tra 1 e 5 milioni, aumentano da 243 a 597. Questa esplosione delle grandi città si sta producendo soprattutto nelle fasce costiere.
La vulnerabilità delle basse regioni costiere
Un quadro più preciso del popolamento delle coste più fragili ed esposte a avversi eventi climatici è desumibile dalla Tabella 1 che riporta, per i vari continenti, la distribuzione della popolazione nelle aree costiere basse, con altitudine inferiore a 10 metri sul livello del mare (acronimo LECZ, per Low Elevation Coastal Zones). Queste rappresentano appena il 2% delle terre emerse, ma ospitano il 10% della popolazione mondiale, e il 13% della popolazione urbanizzata del globo. In Asia, le LECZ occupano il 3% della superficie emersa del continente, ma ospitano il 13% della popolazione totale, e il 18% della popolazione urbana. E’ proprio nelle LECZ dell’Asia, dall’India alla Cina, che c’è la massima concentrazione demografica (tre su quattro abitanti delle LECZ del mondo vivono in Asia) e la massima vulnerabilità a eventi naturali. E’ in queste regioni (Indonesia, Tailandia, Myanmar, Bangladesh, India, Sri Lanka) che si è abbattuto lo tsunami del 2004, generatore di 230.000 vittime accertate e di decine di migliaia di dispersi). La popolazione delle fasce costiere a rischio è destinata ad aumentare ancora nei prossimi decenni, come si evince dalla Tabella 2, che esibisce un aumento da 625 a 893 milioni (+42,8%) tra il 2000 e il 2030, a 1128 milioni (+26,3%). Si tratta di aumenti grosso modo pari a quelli della popolazione mondiale, cosicché la quota di popolazione LECZ aumenterebbe solo lievemente, dal 10,5% nel 2000 all’11,1% del 2060. Inoltre la rapidità con cui sono cresciuti gli insediamenti urbani è andata a detrimento dello sviluppo di infrastutture adeguate per il trattamento dei rifiuti, delle acque reflue o l’abbattimento di gas inquinanti. L’attività umana è inoltre responsabile della distruzione di parte dei presidi naturali, quali le barriere coralline e le foreste di mangrovie.
La minaccia del riscaldamento globale
Le regioni costiere, fin dal nascere del fenomeno urbano, hanno esercitato una grande forza attrattiva sugli insediamenti, per fattori naturali e sociali, in primo luogo per la facilità delle comunicazioni. Ma sono anche le zone più vulnerabili a causa dei cambiamenti climatici in corso. L’ International Panel on Climate Change (IPCC) valuta in 30-60 centimetri la crescita media del livello del mare nel corso del corrente secolo, in conseguenza dello scioglimento dei ghiacci polari2. L’aumento delle temperature del pianeta, inoltre, sta moltiplicando la frequenza di eventi estremi, come le tempeste e i cicloni tropicali con crescenti rischi per gli abitanti, danneggiamento di abitazioni e infrastrutture, rilevanti danni alla produzione. Nella Figura 2 sono esemplificati alcuni “modelli” di vulnerabilità nelle fasce costiere in funzione dell’evolversi di fattori naturali e della capacità adattativa delle città e delle popolazioni. Il modello contrassegnato in giallo – coste della Cina, del Vietnam, golfo del Bengala; Caraibi e Golfo del Messico – è quello che identifica sicuramente le aree costiere più a rischio del globo, oggi, e ancor più domani. Non ci distraggano questi nomi esotici, e non dimentichiamo l’Italia, che ha lunghe e basse coste, delicate e vulnerabili, come ci ricordano – tra altre catastrofi – l’acqua alta di Venezia e i nubifragi di Genova.
1 Secondo le proiezioni delle Nazioni Unite (aggiornate nel 2019, ipotesi media), il tasso d’incremento della popolazione mondiale, oggi pari al 1%, raggiungerebbe lo zero a fine secolo.
2 IPCC, Special Report on the Ocean and Cryosphere in a Changing Climate, 2019
Fonte: neodemos.info
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