La relazione di Giorgio Gori sulle città medie al Consiglio nazionale di ALI

Pubblichiamo la relazione di Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo, al Consiglio Nazionale di ALI, Lega delle Autonomie Locali – Napoli 23 luglio 2021

“Le città sono come dei trasformatori elettrici: essi aumentano le tensioni, precipitano gli scambi, rimescolano all’infinito la vita degli uomini. Ma soprattutto…Le città sono dei moltiplicatori capaci di adattarsi al cambiamento, di stimolarlo, di favorirlo…Sono al tempo stesso dei motori e degli indicatori: esse provocano e segnalano il cambiamento” 

                                                                                                                            Fernand Braudel

Lo sappiamo: la strada per uno sviluppo economicamente e socialmente sostenibile passa oggi più che mai dalle città. L’innovazione, infatti, avviene soprattutto nei contesti urbani più fertili, dotati di infrastrutture per la mobilità, che promuovono il lavoro e proteggono la salute della comunità, che coltivano il sistema della formazione e della ricerca a sostegno delle proprie vocazioni territoriali, e che creano occasioni per l’interazione tra saperi e conoscenze, tra idee e progetti.

Il tema delle città ha ricevuto negli ultimi anni una crescente attenzione da parte delle principali organizzazioni internazionali, dall’ONU all’OCSE. L’Unione Europea ha tradotto questa attenzione nel regolamento per il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale e per il Fondo Sociale Europeo.

Nella programmazione dei fondi della Politica di Coesione per il periodo 2017-2021, l’Obiettivo 5 punta dritto alla promozione dello sviluppo integrato delle zone urbane, identificate come territori chiave per la crescita intelligente, inclusiva e sostenibile.

Le città sono alla base della competitività, dell’innovazione, della sostenibilità e, non meno importante, della democrazia: attraverso di loro ila politica si avvicina al cittadino.

Ma di quali città stiamo parlando? In teoria di tutte, ma in pratica non è sempre così.

Nello scorso decennio si è infatti affermata una visione che identifica le sole grandi città come i motori della crescita.

Vedremo tra poco se questa visione ha ragion d’essere o no.

Quel che è certo è si tratta di una visione molto lontana dalla storia e dalla tradizione del nostro Paese, una visione che tende a contraddirne l’assetto socio-urbanistico, che da sempre è orientato alle città medie e medio-piccole. E così il tessuto produttivo, organizzato secondo un modello multipolare diffuso.

Ma cosa si intende, esattamente per città medie, o intermedie, o di medie dimensioni?

Quali centri rientrano in questa categoria?

Diversi studi si sono cimentati nell’identificazione di cosa sia una città media, di volta in volta con criteri diversi (numero abitanti, densità, capacità attrattiva, dotazione produttiva e di servizi), e parlando sia di città che di sistemi urbani.

C’è la classificazione dell’ISTAT (che deriva dall’Accordo di partenariato 2014-2020 dell’Unione Europea), che le identifica con i Comuni > 45.000 abitanti, non “città metropolitane”, dotati di un centro amministrativo rilevante e di un polo di offerta di servizi basilari ed essenziali, nonché specializzati nel settore economico secondario o terziario. In questo modo in Italia si arriva a 94 comuni, che sommati ai capoluoghi di provincia con più di 45.000 abitanti e al Comune di Aosta diventano 105.

Il recente Rapporto di Mecenate 90 sull’“L’Italia Policentrica” ne individua ben 161, di cui 95 Comuni non metropolitani capoluogo di provincia, e gli altri con più di 25.000 abitanti, buon livello di servizi di base e: o significativo indice di offerta turistica o centri di sistemi locali del lavoro con specializzazione manifatturiera.

A livello internazionale, ancora, la Commissione Europea e l’Ocse hanno elaborato una strategia che distingue tra City (unità amministrativa di almeno 50mila abitanti),Greater City e Functional Urban Area (FUA), che circoscrive la città e la sua zona di pendolarismo.

Con questo metodo in Italia, nel 2019, sono state identificate 83 Functional Urban Areas.

Il problema della delimitazione territoriale delle città rimane dunque una questione aperta.

L’evidenza è comunque sotto i nostri occhi: l’assetto socio-urbanistico del Paese è caratterizzato da una rete di città medie e piccole che per tradizione rappresentano un’importante armatura in termini di ricchezza di risorse, di qualità del tessuto produttivo e di patrimonio sociale e culturale.

I dati, che fatalmente risentono delle diverse definizioni di città media, e non sono quindi sempre omogenei, sono del resto molto chiari nel cogliere la consistenza e il profilo di questo insieme di città:

In Italia il 15% della popolazione vive in città tra i 50mila e i 250mila abitanti. Se prendiamo una definizione più estesa arriviamo addirittura al 26%, con 16 milioni di abitanti.  Nell’area OCSE è il 6%.

Nei Comuni capoluogo di provincia è prodotto il 41% del valore aggiunto del Paese.

Nelle città intermedie si concentrano 1.174.000 imprese; con Commercio, Costruzioni, Manifattura e Servizi turistici che sono – nell’ordine – i settori più rappresentati.

Le città intermedie vantano un patrimonio culturale pari a 902 musei e istituti similari (18% dei musei italiani), 69 in più (l’8,3%) rispetto al 2011.

Nelle città medie troviamo oltre 250 ospedali, un quarto di quelli censiti in Italia.

E ancora: nei capoluoghi di provincia si contano 7.056 corsi di laurea attivati e 1.2 milioni di laureati, il 20% dei laureati italiani. Il 41% degli studenti universitari italiani frequenta le sedi universitarie dei comuni capoluogo di provincia, alcuni dei quali hanno assunto la specifica connotazione di città universitarie.

La capillarità del sistema ferroviario è testimoniata da 202 stazioni, localizzate perlopiù nelle città medie del nostro Paese.

Infine: la capacità ricettiva non è in proporzione la più sviluppata, ma è quella che è cresciuta di più (+104%) dal 2010 ad oggi.

Le città intermedie sono l’ossatura sociale e produttiva dell’Italia, quella che le ha permesso di entrare nel novero dei paesi più industrializzati; sono il centro del “sistema Paese” che ha generato un patrimonio di innovazione e di qualità della vita che rappresenta un potenziale di sviluppo ancora non pienamente valorizzato. Da esse non si può prescindere.

Del resto è così anche nel mondo: Le cosiddette città intermedie ospitano il 20% della popolazione mondiale e un terzo della popolazione urbana totale, e adottano nella maggior parte dei casi sistemi di governance particolarmente adatti a favorire lo sviluppo locale e a far progredire simultaneamente e in modo integrato la tutela della salute umana e dell’ambiente.

Nei Paesi a medio e basso reddito sono queste le città che registrano una maggiore crescita e risultano con ciò essenziali per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu entro il 2030. Il 65% di questi obiettivi, secondo l’Ocse, non potrà essere raggiunto senza il coinvolgimento delle città di medie dimensioni.

Dalle città medie si deve quindi partire quando si pensa ad uno sviluppo urbano sostenibile.

Nel mondo come in Italia.

Le città medie sono nodi di connessione nei rispettivi mercati regionali, e agiscono da ponte con le vicine Città metropolitane.

Su di esse gravitano popolazioni e aree molto più ampie di quelle comprese dai loro confini. Svolgono quindi un ruolo di cerniera tra aree urbane e rurali.

Sono città resilienti e dinamiche, che costruiscono forme inedite di welfare urbano, dotate di importanti infrastrutture culturali che hanno contribuito a migliorare la qualità della vita e a incrementare l’offerta turistica; che hanno governato, o stanno governando, processi di rigenerazione urbana, attivando forme di collaborazione tra pubblico e privato che consentono di comporre interessi diversi.

Sono le città di molti di noi, chiamate oggi ad affrontare le fragilità dei meccanismi di coesione e l’emergere di nuovi bisogni; a proteggere i centri storici e a rivitalizzare le periferie; a limitare il traffico e a combattere l’inquinamento atmosferico; a disegnare un’identità culturale facendo i conti con la presenza di comunità di varie etnie; a ricostruire giorno per giorno la fiducia verso le istituzioni.

Sono città chiamate oggi ad affrontare e a vincere la sfida posta dal nuovo paradigma tecnologico: devono sviluppare nuove funzioni, generare nuova istruzione, favorire ricerca e cultura, ma anche, d’altra parte, generare inclusione, coesione e solidarietà.

Non mancano ovviamente le difficoltà.

La prima riguarda i bilanci. Non parlo di ciò che è avvenuto con la pandemia, perché va riconosciuto che in questo caso la compensazione è stata adeguata.

Parlo di ciò che avvenuto prima, quando il ciclo degli investimenti pubblici locali è stato duramente investito dalla crisi economica del Paese. Bene: le città medie hanno sostenuto un sacrificio pari al 15% della manovra imposta ai Comuni – sia in termini finanziari sia con l’impoverimento degli apparati tecnici – anche qui, con un taglio della spesa per il personale compresa tra il 15% e il 20% e l’abbattimento delle capacità progettuali interne.

Poi c’è la questione delle Province: la crisi delle Province, conseguenza di una riforma lasciata a metà, ha scaricato responsabilità sulle spalle dei capoluoghi, che senza averne gli strumenti sono stati chiamati a riempire un vuoto di leadership territoriale.

Questa situazione ha imposto ai capoluoghi di compensare un vuoto istituzionale, ma senza alcun conferimento di competenze o risorse per svolgere un ruolo di leadership istituzionale di area vasta.

Ora noi sollecitiamo un rafforzamento delle Province nella prospettiva che le descrive come “casa dei Comuni”. In quella cornice, io credo che il legame tra Provincia e Comune Capoluogo debba essere sempre più stretto. E’ dalla capacità di fare squadra di queste due istituzioni che può infatti discendere uno sviluppo equo ed equilibrato di tutto il territorio, a vantaggio di entrambi.

Infine, mi riferisco a circostanze che ogni sindaco di città media conosce, ovvero alla fatica derivante dalla necessità di sostenere investimenti e funzioni di area vasta, in taluni casi coincidenti col territorio dell’intera provincia, senza poter contare né su adeguati strumenti di governance, né su una leva fiscale coerente (pensate anche solo ai servizi culturali e sportivi, dai musei agli stadi, utilizzati – giustamente – dai cittadini di tutta la provincia e pagati col bilancio del solo capoluogo).

E tuttavia, nonostante le difficoltà, il presidente del Censis Giusppe De Rita ha scritto recentemente:

“In un’Italia afflitta da una collettiva inerzia sociale, rispetto all’esigenza di rispondere vitalmente alle sfide dell’oggi e del futuro prossimo, (…) qualcosa si sta muovendo, e in particolare registriamo la crescita di ruolo delle città medie, accompagnata dall’”antropologica volontà di vivere bene”.

“In esse si cerca e si attua uno stile di vita che magari esclude il vigore dello sviluppo e della rancorosa voglia di decrescita, ma si persegue una quotidiana vivibilità dei residenti. La gran parte delle città medie esprime una tensione puntuale a vivere bene”.

E ancora: “L’Italia può proporsi in ambito europeo con un nuovo paradigma di sviluppo sostenibile fondato sulla sua articolata rete di città medie diffuse sul territorio nazionale”.

Questo scrive De Rita.

Peccato che nel frattempo – come accennavo – si sia affermata un’impostazione che tende a privilegiare le grandi città, viste come motori esclusivi della crescita.

Non solo in Italia.

E’ infatti questo il punto di vista della Banca Mondiale, che poggia sull’esistenza di “economie di agglomerazione”, ovvero di vantaggi economici e di efficienza che derivano dalla grande dimensione urbana.

Da qui l’idea che le politiche di sviluppo debbano andare a sostegno delle grandi e grandissime città (con le conseguenze di uno sviluppo squilibrato “aggiustate” in un secondo tempo attraverso politiche di redistribuzione).

Questa teoria non è campata per aria, come sappiamo, anzi: è accompagnata da una chiara evidenza empirica. Le grandi aree metropolitane sono le aree più ricche d’Europa, sono quelle che vantano la migliore accessibilità e la maggiore produttività.

Questo successo – almeno fino a che non è arrivato il Covid – deriva da economie di scala nella produzione di beni e servizi, dalla selezione dei settori più avanzati, capaci di pagare le maggiori rendite urbane, dalla selezione delle funzioni superiori, direzionali e tecnologiche, oltre che da processi cumulativi di domanda e offerta.

A livello internazionale, negli ultimi tempi, sta prendendo però piede una contro-narrazione.

E’ quella che Roberto Camagni attribuisce sia all’OCSE che alla Commissione Europea, orientata al sostegno di TUTTE le città, delle grandi ma SOPRATTUTTO di quelle di media dimensione, con l’obiettivo di sfruttare al meglio il “capitale territoriale” esistente e naturalmente disperso (inteso come l’insieme di risorse, fattori e asset di natura pubblica o privata, materiali o immateriali, umani o produttivi, relazionali o sociali, che rappresentano e determinano il potenziale competitivo delle singole città o regioni).

L’idea di fondo è che agendo su tutti i territori è possibile massimizzare il tasso di sviluppo complessivo.

Scommettere non solo sulle grandi e grandissime città ma anche sulle città medie è vantaggioso per lo sviluppo dell’intero sistema nazionale.

Questo infatti consente:

– di ridurre le tendenze inflazionistiche di uno sviluppo troppo concentrato territorialmente, che hanno impatto negativo sulla competitività;

– di evitare le diseconomie tipiche delle grandi metropoli: dalla congestione all’inquinamento atmosferico, dai costi della mobilità urbana all’inflazione derivante dall’eccesso di concentrazione, dal degrado delle periferie alle tensioni derivanti dalle forti disparità.

– di sfruttare più a fondo il capitale territoriale distribuito.

Anche qui c’è il supporto dei numeri. La ricerca realizzata dal Politecnico di Milano per l’Unione Europea nel 2014 dimostra che una strategia di supporto alle città medie europee sarebbe, in una prospettiva di 15 anni, la strategia più coesiva e più efficace ai fini dello sviluppo economico complessivo.

Le città grandi crescono di più, ma puntare sulla crescita delle città medie produce migliori risultati in termini di sviluppo complessivo del Paese.

Non solo. Aggiungo qui due spunti che meriterebbero d’essere meglio approfonditi ma di cui sono profondamente convinto.

  • Le città medie presentano il miglior equilibrio tra qualità del capitale sociale e “manovrabilità” (quest’ultima in virtù delle loro dimensioni contenute), accompagnato da una buona o comunque accettabile qualità delle classi dirigenti e degli apparati tecnici-amministrativi. L’insieme di queste condizioni le rende particolarmente adatte a coltivare l’innovazione. Spesso sono infatti il luogo della sperimentazione delle nuove politiche territoriali.
  • Le città medie sono essenziali per saldare il gap tra città e aree extraurbane, grazie al loro ruolo di cerniera e leadership alla scala territoriale, ovvero per provare a colmare lo scollamento tra città e “contado” che in tante occasioni abbiamo visto tradursi in rivolta delle aree extraurbane… e in sconfitta della sinistra.

Per tutte queste ragioni, soprattutto in Italia, mi parrebbe necessario contrastare una rappresentazione che vede le sole grandi città come unici luoghi competitivi. E recuperare una situazione che ha visto le città di medie dimensioni oggettivamente trascurate, assenti nella produzione normativa del Parlamento italiano.

Su questo punto mi permetterò di essere chiaro, partendo dai fatti: la costituzione delle città metropolitane ha aperto un nuovo scenario nell’organizzazione dei territori – per molti versi atteso e necessario – che ha però finito, nella gestione delle relazioni istituzionali e delle policy, per stabilire un’indebita gerarchia tra le città, a discapito delle città medie.

Le Città Metropolitane, sono infatti nate in sostituzione delle Province – rispettivamente di Torino, di Roma, di Venezia, di Bologna, e così via. Ma col passare del tempo hanno preso sempre più spesso a indicare altro, e cioè: semplicemente le grandi città. Così che quando il governo convoca i rappresentanti delle Città metropolitane, non convoca in realtà i presidenti delle ex Province che hanno assunto un nuovo status, bensì i sindaci di quelle 14 grandi città, cui viene nei fatti riconosciuto uno status superiore.

Alcune di quelle città hanno un rango oggettivamente superiore, dettato dalla loro dimensione, dal numero degli abitanti, dalla densità per km quadrato, dalla loro valenza socio-economica – parliamo di Roma, Milano e Napoli – mentre le altre sono poco più grandi di molti capoluoghi “non metropolitani”.

Per dire: Verona ha 257.000 abitanti, più di Venezia, di Messina, di Reggio Calabria e di Cagliari, poco meno di Catania.

E se anziché le città confrontiamo le aree vaste – città metropolitane da una parte, province dall’altra – scopriamo che la provincia di Brescia ha più abitanti di 13 città metropolitane. Che Cuneo, Bergamo, Brescia, Alessandria, Pavia, Salerno, Cosenza, Como e Varese hanno più comuni di 12 delle 13 aree metropolitane.

Per non menzionare la rilevanza produttiva, o turistica, o culturale.

Non ce l’ho con le Città Metropolitane.  Osservo però che nella legge 56/14 non è stato adottato nessun criterio oggettivo per definire quali delle città del Paese dovesse assurgere al rango di Città Metropolitana, tanto che quelle “scelte” sono completamente differenti una dall’altra.

E dunque anche per questo, o soprattutto per questo, non possono esserci città di serie A e città di serie B, a meno che la serie A non sia fatta da quelle poche vere città metropolitane che il nostro Paese può annoverare. E comunque, anche in questi casi, l’attenzione nei loro confronti non può essere accompagnata da disattenzione nei confronti delle altre città.

Perché questo tradisce il Dna del nostro Paese; perché rischia di dare luogo ad una discriminazione – perché per esempio nel PNRR c’è spazio solo per i grandi progetti culturali delle città metropolitane? – che penalizza le città medie a partire dai capoluoghi di provincia.

Non ho nulla contro le Città Metropolitane, bene che ci siano, ma se queste arrivano a chiedere l’assegnazione diretta del 20% dei finanziamenti europei compresi nel PNRR – sostenendo che solo le Città metropolitane hanno le giuste caratteristiche per seguire progetti di media dimensione e sono già organizzate per la gestione e rendicontazione dei progetti comunitari – c’è qualcosa che non convince. Quando avanzano la proposta di individuare i comuni sopra una certa soglia di abitanti come stazioni appaltanti principali, e si sostiene che questa soglia potrebbe essere rappresentata dalle Città metropolitane, secondo me c’è qualcosa che non convince. Non solo perché se queste proposte fossero accolte si tradurrebbero in una ulteriore discriminazione a danno delle città medie – che sono assolutamente in grado di gestire progetti complessi e di rendicontare i progetti comunitari – ma perché il modello di sviluppo che quella proposta sottende non è il modello di sviluppo di cui l’Italia ha bisogno.

Noi dobbiamo fare una battaglia per le città, ma per tutte le città, non solo per quelle metropolitane.

In generale abbiamo ben chiaro quale sia l’approccio che ci interessa promuovere: è quello volto a territorializzare le politiche, a dare alle politiche un fondamento basato sul territorio. Quello che però osserviamo è che mentre per le città metropolitane questo approccio ha trovato una parziale concretizzazione col PON Metro – e sull’altro fronte si è tradotto nella Strategia per le Aree Interne – per le città di medie dimensioni stenta a trovare una traduzione riconoscibile. L’orientamento recentemente espresso dal Ministero per il Sud e la Coesione Territoriale, disponibile a integrare il PON Metro con interventi destinati alle sole città medie delle regioni meno sviluppate – cioè del Meridione – risulta a maggior ragione incomprensibile. Se il PON Metro è rivolto a tutte le Città Metropolitane, comprese quelle del Nord e del Centro, non si capisce perché le Città medie di queste aree del Paese debbano essere completamente trascurate.

Guardando al recente passato, dobbiamo tornare al Piano Periferie per ritrovare un programma di policy che abbia consapevolmente puntato sul rafforzamento anche delle città medie (di tutte le città medie) con 120 progetti di riqualificazione urbana e 3.8 miliardi di investimento, di cui 2.1 stanziati dal Governo, progetti che hanno consentito il  recupero di aree dismesse, la riqualificazione di piazze e spazi pubblici, la creazione di parchi e campi sportivi, di piste ciclabili, biblioteche e teatri.

Le notizie di questi giorni, legate al finanziamento attraverso il bando PINQUA di circa 180 progetti di riqualificazione urbana elaborati da Regioni, Città metropolitane città medie – per oltre 3 miliardi di euro – sono un fatto estremamente positivo; e tuttavia sappiamo che si debbono alla speciale disponibilità dei fondi europei del PNRR. Non si tratta cioè di un orientamento strutturale. Che invece serve.

Antonio Decaro e Michele De Pascale, presidenti di Anci e Upi, hanno molto chiaro il tema, e voglio ringraziarli per avere a più riprese sollevato la questione nelle loro interlocuzioni col Governo, ancora negli ultimi giorni.  Permangono però resistenze – o forse un difetto di reale comprensione dell’importanza e del ruolo delle città intermedie – che credo ci debbano spingere a far sentire con più forza la nostra voce.

Con un obiettivo chiaro e semplice: ottenere che accanto al PON Metro nasca il PON Città Medie, adeguatamente finanziato.

Il resto lo conosciamo, e riguarda tutti i Comuni, a prescindere dalla loro dimensione e dal numero dei loro abitanti.

Abbiamo chiesto semplificazione e velocità, perché è di questo che hanno bisogno le nostre comunità. Perché la velocità è democratica – abbiamo detto -, consente di mettere a terra i progetti e di non perdere la straordinaria occasione rappresentata dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Ma soprattutto è la condizione per restituire credibilità alla politica e arginare le spinte populiste.

Quella di oggi mi pare una buona occasione per ribadire e rilanciare queste istanze, con forza. A nome di tutti i comuni e a maggior ragione – se me lo consentite – a nome dei sindaci delle città medie.

 

RElazione CITTA’ MEDIE – Ali 23.07.2021

 

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