Insufficiente finanziamento del Servizio sanitario nazionale (Ssn), personale medico-infermieristico demotivato, popolazione che paga le prestazioni di tasca propria quando può, altrimenti rinuncia a curarsi, Livelli essenziali di assistenza (Lea) non rispettati, divari territoriali pesanti. Sono alcune delle criticità che rileva il 7° Rapporto della Fondazione Gimbe sul Ssn, presentato stamattina in Senato, e che motivano l’affermazione del presidente Nino Cartabellotta: «Oggi la vera emergenza del Paese è il Servizio sanitario nazionale».
Il Rapporto Gimbe segnala che, pur salita a 134 miliardi di euro nel 2024, la spesa sanitaria pubblica mantiene un divario di 889 euro pro capite rispetto alla media dei Paesi Ocse membri dell’Unione Europea. «La grave crisi di sostenibilità del Ssn – ricorda Cartabellotta – è frutto anzitutto del definanziamento attuato negli ultimi 15 anni da tutti i Governi, che hanno sempre visto nella spesa sanitaria un costo da tagliare ripetutamente e non una priorità su cui investire in maniera costante».
Le previsioni per il prossimo futuro, continua il Rapporto Gimbe, non lasciano intravedere alcun rilancio del finanziamento pubblico per la sanità. Infatti, secondo il Piano strutturale di bilancio deliberato lo scorso 27 settembre in Consiglio dei ministri, il rapporto spesa sanitaria/Pil si riduce dal 6,3% nel 2024-2025 al 6,2% nel 2026-2027.
Cresce intanto la quantità di risorse spese dalla popolazione, quando può, per curarsi: «Le persone – rileva Cartabellotta – sono costrette a pagare di tasca propria un numero crescente di prestazioni sanitarie, con pesanti ripercussioni sui bilanci familiari. Una situazione in continuo peggioramento, che rischia di lasciare l’universalismo del Ssn solo sulla carta».
Già oggi, continua il Rapporto Gimbe riprendendo dati Istat, quasi 4,5 milioni di persone hanno rinunciato alle cure, di cui 2,5 milioni per motivi economici. Le altre cause sono i lunghi tempi di attesa e le difficoltà di accesso, quali struttura lontana, mancanza di trasporti, orari scomodi.
Alle difficoltà della popolazione si affianca la crisi delle professioni sanitarie. Nonostante in Italia siano presenti 4,2 medici ogni mille abitanti, un numero maggiore di quanto accade nei Paesi Ocse (3,7), i camici bianchi sono “in fuga” da alcune specializzazioni, in particolare la medicina d’emergenza-urgenza. Tra le cause di disaffezione spiccano burnout, basse retribuzioni, prospettive di carriera limitate e aumento dei casi di violenza.
«Ma la vera crisi – aggiunge Cartabellotta – riguarda il personale infermieristico: nonostante i crescenti bisogni, anche per la riforma dell’assistenza territoriale, il numero di infermieri è largamente insufficiente e, soprattutto, le iscrizioni al corso di laurea sono in continuo calo, con sempre meno laureati». E con 6,5 infermieri ogni mille abitanti, l’Italia è già oggi sotto della media Ocse (9,8).
Preoccupano anche le difficoltà che hanno alcune Regioni a rispettare i Lea, che sono l’indicatore di una uniformità delle prestazioni che deve essere garantita su tutto il territorio nazionale: nel 2022 solo 13 Regioni hanno rispettato gli standard essenziali di cura, Puglia e Basilicata le uniche promosse al Sud. Circostanze che spiegano almeno parzialmente la mobilità per curarsi verso le Regioni del Nord: «L’aumento della migrazione sanitaria ha effetti economici devastanti non solo sulle famiglie – aggiunge Cartabellotta – ma anche sui bilanci delle Regioni del Mezzogiorno, che risultano ulteriormente impoverite».
Infine alcuni progetti che il Pnrr dovrebbe finanziare paiono in ritardo. Secondo l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), al 30 giugno 2024 sono stati dichiarati attivi dalle Regioni il 19% delle Case di comunità (268 su 1.421), il 59% delle Centrali operative territoriali (362 su 611) e il 13% degli Ospedali di comunità (56 su 429) con ritardi particolarmente marcati nel Mezzogiorno.
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