Non sarà una semplice manutenzione del Testo unico degli enti locali, ma un intervento più ampio e innovativo che porterà a scrivere una nuova Carta delle autonomie, più rispondente alle esigenze dei territori di quanto non lo sia l’attuale Tuel ormai vecchio di 20 anni. Il restyling più urgente dovrà riguardare le province che, senza ritorni al passato, hanno bisogno di una governance più funzionale (il presidente, sempre più un «uomo solo al comando» potrebbe essere affiancato da una giunta) ma anche di autonomia finanziaria e funzioni certe. Il ritorno all’elezione diretta del presidente, invece, «è un tema aperto ma non prioritario», anche se è evidente che qualcosa nel sistema elettorale delle province andrà cambiato a cominciare dal voto ponderato «che non sempre ha assicurato rappresentatività, soprattutto ai piccoli comuni». Sull’associazionismo comunale dovranno essere i sindaci dal basso, e non le regioni dall’alto, a individuare gli ambiti ottimali per l’esercizio in forma associata delle funzioni. Le regioni dovranno intervenire solo in un secondo momento in caso di inerzia da parte dei comuni. A pochi giorni dall’insediamento del gruppo di lavoro, nominato dalla ministra dell’interno Luciana Lamorgese, per la riscrittura del Testo unico, il sottosegretario all’interno Achille Variati, a cui spetterà il coordinamento della task force ministeriale, anticipa le direttrici lungo cui si muoverà la riforma, destinata a percorrere un doppio binario: da un lato un disegno di legge delega, da approvare entro fine anno per poi lasciare spazio al decreto legislativo attuativo e ,dall’altro, norme di immediata applicazione (come quelle sulle province) destinate ad entrare in vigore subito per ragioni di urgenza.
Sottosegretario, con l’insediamento lunedì della commissione ministeriale, presieduta dal presidente emerito del Consiglio di stato Alessandro Pajno, prende il via ufficialmente il quinto tentativo di riforma del Tuel. I quattro precedenti per svariati motivi non hanno avuto buona sorte. Questa sarà la volta buona? Ci sono tutte le premesse perché lo sia. L’impegno a riformare il Tuel questa maggioranza l’ha preso sin dalla risoluzione, approvata dal Senato e dalla Camera in occasione dell’esame della Nota di aggiornamento al Def 2019. In quella sede il parlamento ha impegnato il governo ad inserire tra i provvedimenti collegati alla legge di bilancio 2020 un disegno di legge delega di revisione del Tuel. Eravamo pronti a partire a inizio anno, ma poi l’emergenza Covid ha fatto passare tutto in secondo piano. Ora è il momento di ripartire. La ministra Lamorgese ha nominato una commissione di alto profilo che si è posta l’obiettivo di concludere i lavori entro il 31 dicembre 2020. Lavoreremo a stretto contatto con la viceministra al Mef, Laura Castelli, e con il ministro per gli affari regionali Francesco Boccia per partorire entro fine anno un ddl che conterrà anche norme immediatamente applicative per quegli interventi che non possono attendere i tempi di attuazione della delega. Non si tratterà di una semplice manutenzione del dlgs 267/2000, ma di una riforma innovativa della governance locale, che partorirà una nuova Carta delle autonomie.
Immagino che gli interventi più urgenti riguarderanno le province. L’Upi, di cui peraltro lei è stato presidente, chiede di fare presto per consentire agli enti di area vasta di rispondere alle esigenze dei cittadini. Inizierete dalla riforma della legge Delrio? È un intervento non più rinviabile. Ci sono necessità di revisione indifferibili che richiedono una forte rivisitazione delle funzioni e degli stessi organi di governo delle province. La legge Delrio (n.56/2014) era funzionale al disegno politico della riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciata dal referendum del 2016. Le province venivano spogliate di funzioni (e anche di risorse) in attesa di procedere alla loro eliminazione. Gli italiani con la vittoria dei No al referendum hanno respinto questo disegno e ora è necessario prendere atto che le province sono vive e vegete e hanno bisogno di risorse, governance e certezza di funzioni per erogare i servizi ai cittadini. Noi riporteremo la disciplina delle province, fuoriuscita dal Tuel per opera della legge Delrio, all’interno della nuova Carta delle autonomie. Non sarà una restaurazione del passato. Questi anni di applicazione, spesso controversa, della legge Delrio, hanno insegnato che il modello della provincia quale «casa dei comuni», ossia ente compartecipe con i comuni del governo dell’area vasta, è un modello giusto da non abbandonare. Certo, vanno ridefinite le funzioni fondamentali sia delle province che delle città metropolitane (mi riferisco soprattutto a quelle ambientali su cui la Delrio lascia aperti molti profili di incertezza), così come va garantito il giusto apporto di risorse che la Delrio aveva sottratto.
Lei ha detto che non ci sarà nessuna restaurazione del passato. Quindi è da escludere un ritorno all’elezione diretta del presidente della provincia, tema molto caro alla Lega ma meno ai vostri alleati di governo 5 Stelle? Tutta la materia della riforma delle province, essendo assai delicata anche politicamente, richiederà un approfondimento nella maggioranza che non è stato possibile fare a causa dell’emergenza Covid. Io considero il ritorno all’elezione diretta non una priorità. Ridurre la riforma della legge Delrio a un ritorno all’elezione diretta sarebbe fuorviante e troppo semplicistico. Non è l’elezione diretta del presidente la soluzione per ridare slancio alle province.
Qual è dunque la chiave per rilanciare la governance provinciale? La chiave è superare la gestione monocratica. Oggi il presidente di provincia amministra l’ente quasi da solo. Bisogna superare questa «solitudine del presidente» e in quest’ottica ripristinare le giunte provinciali può essere un intervento di buon senso, di certo più importante dell’elezione diretta. Bisognerà studiare e articolare bene il rapporto con gli altri organi provinciali tutt’ora esistenti, il consiglio e l’assemblea. Detto questo è innegabile che qualcosa nel sistema elettorale delle province vada rivisto. Mi riferisco al voto ponderato, che spesso ha prodotto consigli non rappresentativi del territorio e delle istanze soprattutto dei piccoli comuni. E anche l’idea di un presidente in carica per 4 anni a fronte di consigli provinciali in carica per 2 anni non ha funzionato.
Il restyling delle province va a braccetto con la riforma dell’associazionismo comunale. I piccoli comuni si augurano che sia finita l’epoca degli obblighi imposti dall’alto. Sarà così? L’esperienza ci insegna che tutte le volte che abbiamo voluto imporre dall’alto modelli di governance è finita male. L’associazionismo forzoso, spazzato via dalla Consulta, è un modello da non replicare. I municipi devono essere lasciati liberi di autodeterminarsi senza interventi dall’alto. E quando dico «dall’alto» non mi riferisco solo all’intervento statale, ma anche a quello regionale. Oggi sono le regioni a definire gli ambiti territoriali ottimali, ma anche questo è un modello di governance che fa calare dall’alto decisioni che invece andrebbero prese dal basso. Bisogna evitare, anche in prospettiva del regionalismo differenziato, che le funzioni amministrative che i comuni non sono in grado di gestire e che per questo dovrebbero spettare alle province, finiscano per essere accentrate nelle regioni. Si realizzerebbe un neo-centralismo che non farebbe bene al sistema delle autonomie.
Chi deciderà gli ambiti territoriali al cui interno associare le funzioni? Noi pensiamo a un modello in cui siano i sindaci nelle assemblee provinciali o metropolitane a scegliere le articolazioni più idonee alle loro realtà. Fisseremo un termine entro cui i comuni dovranno decidere. E solo in caso di loro inerzia scatterà il potere sostitutivo delle regioni.
da “Italia Oggi”, di Francesco Cerisano