In Italia gli ultimi dati legati alla mortalità prematura dovuta all’inquinamento atmosferico indicano oltre 50mila morti premature l’anno dovute all’esposizione eccessiva ad inquinanti atmosferici come polveri sottili (in particolare il Pm2,5), ossidi di azoto (NO2) e ozono troposferico (O3). Un conto che si trasforma in diverse decine di miliardi l’anno (tra i 47 e i 142 miliardi di euro) tra spese sanitarie e giornate di lavoro.
Il Rapporto “Mal’aria di città 2021”, pubblicato in gennaio da Legambiente, sottolinea come questi numeri siano simili, per ordine di grandezza, a quelli impressionanti legati al Covid-19.
Quindi, intervenire in maniera rapida ed efficace sulla riduzione dell’inquinamento atmosferico è una priorità esattamente come la battaglia contro il Covid-19. Mai come nel 2020 gli aspetti sanitari (legati alla pandemia) e ambientali (legati all’inquinamento atmosferico) sono stati così fortemente associati, correlati e confrontati.
L’inquinamento atmosferico è di fatto un problema complesso, che dipende da molteplici fattori come il traffico, il riscaldamento domestico, l’agricoltura e l’industria in primis, e non può essere affrontato, avverte lo studio, in maniera estemporanea ed emergenziale, ma con metodo strutturato e una chiara visione degli obiettivi e delle azioni. L’Italia, invece è indietro sulle azioni e quelle che ha fatto si sono rivelate inefficaci e applicate a macchia di leopardo. E i dati 2020 lo dimostrano.
Lo dimostrano le 35 città capoluogo di provincia che hanno superato almeno con una centralina la soglia dei 35 giorni con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi per metro cubo prevista per le polveri sottili (Pm10), e ancor più le medie annuali registrate nel 2020. Sono 60 le città italiane (il 62% del campione analizzato) che hanno fatto registrare una media annuale superiore a quanto indicato dall’Oms (vedi lo studio Snpa sull’inquinamento atmosferico). Tra le città con i dati peggiori ci sono Torino, Venezia, Padova, Rovigo, Treviso ma anche Milano, Avellino, Cremona, Frosinone, Modena e Vicenza.
Ma come è possibile che le restrizioni di pandemia e lockdown tra metà marzo e inizio maggio 2020 non abbiano abbassato i valori di inquinamento atmosferico?
Innanzitutto, rileva il Rapporto, occorre tenere presente che le misure sono state attivate “fuori stagione”: il periodo critico dell’inquinamento è quello compreso tra i mesi gennaio-febbraio e novembre-dicembre. Certo, ci sono stati i mesi di chiusura di tutte le attività produttive e dei servizi, delle scuole, dello studio e il lavoro a distanza. Nel 2020 i chilometri pro-capite percorsi quotidianamente sono diminuiti dell’85% con sensibile calo del consumo di carburante: -21% per benzina e metano, -17% per il gasolio da autotrazione. Cali relativi, però. Il trasporto merci ha di fatto mantenuto pressoché stabili i suoi ritmi. Si sono svuotati treni, autobus e soprattutto metropolitane. La mobilità ciclabile è più che raddoppiata, ma gran parte dell’utenza Tpl (Trasporto pubblico locale) ha utilizzato l’automobile privata, per di più in solitudine, per evitare il contagio. Si aggiunga, dice Legambiente, che l’emergenza sanitaria ha fornito “un’ulteriore scusa per derogare su alcuni divieti (circolazione e aree ZTL)”.
Inoltre, sono le polveri di formazione secondaria a essere sempre più prevalenti; quelle derivanti da reazioni chimiche in atmosfera a partire da inquinanti in forma gassosa, la cui fonte prioritaria è l’allevamento del bestiame, attività che non ha avuto nessun rallentamento in lockdown.
Che l’inquinamento atmosferico influisca negativamente sulla salute delle persone, attraverso l’insorgenza di problemi e patologie respiratorie, cardiovascolari, metaboliche e neurologiche, è ampiamente confermato dalla letteratura scientifica internazionale.
Legambiente richiama l’attenzione sull’urgenza di una decisa presa in carico del fatto che questi effetti sulla salute provochino numerose malattie e un notevole impatto economico sul sistema sanitario, sociale e produttivo, sottolineando che tutti i piani e programma sottoscritti negli ultimi anni sia dal ministero dell’Ambiente che dalle Regioni hanno avuto tutti la stessa carenza di ambizione negli obiettivi, risultando “una somma di iniziative spesso dettate dalla logica dell’emergenza, e non un piano organico e coordinato con una visione d’insieme”.
Nel Rapporto si considerano cruciali i temi di mobilità e spazio pubblico.
“Se la parola d’ordine della pandemia è stata distanziamento, quella che dovrà ora imporsi è prossimità”, si legge nel Rapporto: medicina territoriale, servizi di prossimità, “città a 15 minuti”, scuole, luoghi di lavoro (co-working), negozi, relazioni facilmente raggiungibili a piedi o con mezzi di mobilità leggeri (bici). In secondo luogo, si suggerisce di trasformare immediatamente almeno un terzo degli impianti di riscaldamento a metano in pompe di calore elettriche rinnovabili; si chiede, infine, di partire da subito con il blocco della circolazione nelle città inquinate delle auto diesel Euro4, proseguendo col blocco degli Euro5 previsto per il 2025.
Il Rapporto ricorda anche che negli ultimi decenni l’Unione europea ha emanato un’ampia serie di direttive e linee di indirizzo che hanno portato considerevoli miglioramenti della qualità dell’aria che respiriamo, ma in Europa i dati continuano a evidenziare un carico di malattie legate all’inquinamento atmosferico ancora troppo elevato.
Nel 2019 la Commissione europea ha condotto un’analisi retrospettiva per stabilire efficacia e idoneità delle azioni Ue sulla qualità dell’aria, rilevando una sostanziale debolezza delle misure. Una debolezza che costa circa 400mila morti premature l’anno con costi totali legati alla salute tra 330 e 940 miliardi di euro. Una ragione è sicuramente riconducibile al fatto che gli attuali standard di qualità dell’aria sono meno ambiziosi delle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), standard che sono dunque in fase di revisione e allineamento. da asvis.it
Rapporto_Malaria_Legambiente_2021