Il miliardo di maggior dotazione con il DL Sostegni è opportuno, ma non sufficiente. Sono urgenti interventi correttivi per salvare uno strumento utile e renderlo più efficace
Tra i tanti frutti amari che la pandemia ci ha consegnato, aldilà degli aspetti strettamente sanitari, ve n’è uno che ci deve particolarmente preoccupare. La perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, unita a una significativa contrazione del reddito per milioni di famiglie, ha prodotto nel 2020 un forte aumento della povertà nel nostro Paese, che oggi tocca il valore più elevato dal 2005. Nel 2020, secondo l’Istat, le famiglie in povertà assoluta hanno superato i 2 milioni (dal 6,4% del 2019 al 7,7%, +335mila), mentre il numero di individui coinvolti si attesta a 5.6 milioni (dal 7,7% al 9,4% della popolazione, oltre 1 milione in più).
Se è vero che la protezione più efficace risiede nel riattivare una dinamica di crescita, generando attraverso le attività economiche nuovi posti di lavoro e una crescita della produttività e dei salari, è evidente la necessità di investire nelle politiche di contrasto alla povertà, a partire da un potenziamento del Reddito di Cittadinanza.
Nell’anno della pandemia le famiglie beneficiarie di questo strumento sono aumentate del 30%, da 940mila a 1,2 milioni, a cui si sono aggiunte quelle beneficiarie del Reddito di Emergenza (422 mila): in tutto 1,5 milioni di famiglie al netto delle sovrapposizioni, pari a 4,3 milioni di beneficiari.
A fronte di questi dati, il miliardo di euro di maggior dotazione del reddito di cittadinanza previsto dal DL Sostegni è una scelta assolutamente opportuna, ma non sufficiente.
A più di due anni dal suo varo, voluto dal Movimento 5Stelle in sostituzione del Reddito di Inclusione sperimentato dal Governo Gentiloni, lo strumento ha infatti manifestato chiare criticità, che ne suggeriscono la revisione.
La prima, la più evidente, è che uno dei due obiettivi per cui il reddito di cittadinanza era stato pensato, l’attivazione del mercato del lavoro, non è stato minimamente centrato. Quanto all’altro, il contrasto alla povertà, è stato solo parzialmente raggiunto.
La soluzione non risiede nella netta separazione dei due traguardi. Una prospettiva di recupero dell’autonomia attraverso il lavoro deve rimanere nell’impianto del Reddito di cittadinanza (com’era anche per il Reddito di Inclusione). E tuttavia il tema occupazione non può essere centrale. È evidente che le politiche attive del lavoro vanno realizzate con altri strumenti.
È comunque rispetto all’obiettivo di contrasto della povertà, nel momento in cui esplode il numero delle famiglie e degli individui in forte difficoltà economica, che il Reddito di Cittadinanza ha bisogno di urgenti interventi correttivi. Quelli che seguono, condivisi dal Coordinamento dei sindaci del Pd, sono stati recentemente sottoposti al segretario Enrico Letta.
– L’attuale meccanismo di attribuzione del Reddito di Cittadinanza penalizza le famiglie numerose con minori a carico, che peraltro sono quelle in cui statisticamente si concentrano i livelli più elevati di incidenza della povertà. La scala di equivalenza adottata per il Reddito di Cittadinanza, diversa da quella Isee, prevede solo un 20% di contributo aggiuntivo per ogni figlio minorenne, con un massimale troppo basso. La stessa scala di equivalenza ha impatto sull’accesso al contributo, anche qui penalizzando le famiglie con più figli minori. La distribuzione dei beneficiari è pertanto fortemente sbilanciata a favore delle famiglie senza minori, in particolare quelle con due e soprattutto un componente, la cui percentuale tra i percettori del Reddito di Cittadinanza è ben superiore a quella del medesimo gruppo rispetto all’insieme delle famiglie in povertà assoluta. I nuclei più ristretti ricevono in proporzione importi elevati, non di rado superiori alla soglia di povertà assoluta, che disincentivano l’accettazione di posti di lavoro.
Andrebbe incrementato il sostegno economico per le famiglie in povertà con figli, sostituendo l’attuale scala di equivalenza con quella dell’Isee ed eliminando il tetto per le famiglie numerose (o innalzandolo sensibilmente). Si potrebbe pensare anche ad un riequilibrio degli importi, con una riduzione dei medesimi per le famiglie mono o bi-componenti, in particolare se proprietarie di abitazione.
– Anche i nuclei familiari in cui sono presenti persone con disabilità finiscono per risultare penalizzati in relazione all’importo della componente monetaria del RdC, perché nel calcolo del reddito vengono computati anche i supporti erogati dallo Stato alle persone disabili o non autosufficienti.
Anche qui andrebbe riequilibrata la scala di equivalenza a favore dei nuclei con disabili, che allo stato dispongono solo di una piccola e insufficiente maggiorazione.
– Il Reddito di Cittadinanza non risponde ai bisogni delle persone “senza fissa dimora”, nonostante la condizione di estrema povertà ed emarginazione sociale che le caratterizza. Sono esclusi infatti dai benefici del Reddito di Cittadinanza tutti coloro che non sono in grado di dichiarare un domicilio abituale ai fini dell’iscrizione anagrafica. Le persone che dispongono di una “residenza fittizia” – possibilità peraltro istituita solo da una piccola percentuale di Comuni – non possono comunque godere del contributo all’affitto (280 euro/mese) riservato ai beneficiari che hanno un contratto di locazione in essere.
Andrebbero ridotti i vincoli legati alla residenza che attualmente condizionano l’accesso al RdC; ai “senza fissa dimora” andrebbe concessa una piccola quota aggiuntiva come “dote abitativa”.
– Sono esclusi dal Reddito di Cittadinanza gli stranieri che non risiedano in Italia da almeno dieci anni, gli ultimi due consecutivi. Il risultato è che nonostante gli stranieri extracomunitari siano circa un terzo del totale delle persone in povertà assoluta, la loro quota tra i beneficiari del Reddito di Cittadinanza non supera il 6%.
Va ridotto il numero degli anni di residenza necessari per gli stranieri per accedere al Reddito di Cittadinanza, e ampliata in proporzione la dotazione della misura.
– Esiste poi una questione territoriale, evidenziata dall’Istat nel forte aumento della povertà assoluta al Nord nel corso del 2020 (218 mila famiglie in più, corrispondenti a 720 mila individui). In questo dato pesa la minore copertura del Reddito di Cittadinanza nelle regioni settentrionali. Al Sud lo riceve infatti il 79% delle persone in povertà assoluta, e nelle Isole si arriva al 97%. Al Centro si scende al 55%, ma è al Nord che la copertura crolla: 37% nel NordOvest e 26% nel NordEst. Questo è in parte dovuto all’esclusione della maggior parte degli stranieri poveri, più numerosi al Nord, come si è visto discriminati dalle regole di accesso al Reddito di Cittadinanza, e al fatto che molte persone di cui l’Istat certifica la povertà assoluta (differenziando i territori in base al costo della vita) siano esclusi dal Reddito di Cittadinanza a causa dell’unica soglia di accesso, indifferente invece alle differenze del costo della vita nelle diverse zone del Paese. In un Paese che ha un elevato differenziale del costo della vita (mediamente del 30% tra regioni del Nord e del Mezzogiorno) l’utilizzo di un’unica soglia finisce per penalizzare chi è povero nelle regioni in cui la vita costa di più. Accade così che praticamente tutti i poveri che vivono nelle Isole ricevano il Reddito di Cittadinanza, mentre nel NordEst lo percepisce solo uno su quattro.
Si tratta in questo caso di immaginare soglie di accesso diversificate in base al costo della vita, in coerenza con quelle che Istat utilizza per certificare la condizione di povertà assoluta. Questo non certo per penalizzare il Sud, ma per far sì che si possano aiutare anche i poveri del Nord.
– L’accesso al Reddito di Cittadinanza è basato su una fotografia “datata” del reddito (l’ISEE calcolato a gennaio 2021 certifica i redditi conseguiti nel 2019) e non coglie quindi la possibile povertà “corrente”.
Va chiarita e resa sistematica la possibilità di utilizzo dell’ISEE corrente (già prevista, ma con complicazioni di procedura e limiti).
– Va affrontato anche il tema del “lavoro povero”, legato a sempre più frequenti occupazioni saltuarie, occasionali o part-time. Non sempre il lavoro è una sufficiente protezione dalla povertà.
È necessario prevedere che il Reddito di Cittadinanza possa coesistere col lavoro, almeno in parte e almeno per un primo periodo, se questo non garantisce un livello di vita sufficiente, anche per evitare di spingere i percettori verso il lavoro nero pur di non perdere il sussidio.
– Un altro “peccato originale” è l’aver sottratto la gestione dello strumento di contrasto della povertà alla competenza dei Comuni. A differenza dei Rei, che era saldamente nelle mani delle amministrazioni comunali, integrato con le politiche sociali, il Reddito di Cittadinanza relega i Comuni ad un ruolo del tutto marginale. Questo impedisce una corretta presa in carico dei nuclei familiari e un’analisi multidimensionale dei bisogni (come avveniva invece per il Rei), utile anche per indirizzare al meglio i beneficiari nel percorso di inclusione lavorativa.
È necessario (almeno) costruire un sistema informativo che permetta il totale interscambio dei dati e la condivisione delle informazioni da parte dei diversi soggetti coinvolti nel Reddito di Cittadinanza: Inps, Centri per l’impiego, Comuni, Agenzia delle Entrate. In questo modo sarebbe facilitata la verifica dei requisiti e delle irregolarità, evitando truffe ai danni dello Stato.
– La partecipazione dei beneficiari del Reddito di Cittadinanza ai Progetti Utili alla Collettività (Puc) comporta in ogni caso un significativo carico di lavoro per i Servizi sociali delle amministrazioni: programmazione, costante raccordo tra i nuclei familiari, i Centri per l’Impiego e il Terzo settore, predisposizione di bandi, stipula di convenzioni e assicurazioni, formazione, tutoraggio, acquisto di dispositivi di protezione, compilazione di modulistica e monitoraggio.
Questo richiede che i Comuni siano dotati di personale e fondi dedicati.
– Infine, va sottolineato come la partecipazione ai Puc – del tutto priva di componenti formative e di una qualunque prospettiva di inclusione lavorativa – non sia di alcun aiuto ad evitare la cronicizzazione della condizione di fragilità dei beneficiari del Reddito di Cittadinanza.
Si tratta pertanto di prevedere – per chi non presenta oggettivi impedimenti – l’attivazione di percorsi formativi che aumentino la possibilità di ricollocazione nel mondo del lavoro almeno di una parte dei destinatari del Reddito di Cittadinanza coinvolti nei Progetti Utili alla Collettività.
da huffingtonpost.it, di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo