BUONI SPESA: RESIDENZA E PERMESSO DI SOGGIORNO NON POSSONO ESSERE REQUISITI PER LA CONCESSIONE

Dopo l’ordinanza del Tar Abruzzo, che ha rilevato l’illegittimità della residenza come pre-requisito per il buono spesa, il decreto n. 12835/2020 del tribunale di Roma conferma

La condizione di emergenza non consente, in quanto di emergenza, di prefissare condizioni di accesso agli aiuti. Ci sono comuni che si sono messi alla caccia di “requisiti” sostanzialmente solo “formali”, trascurando volutamente che le finalità dell’Ordinanza 658/2020 sono esattamente quelle ora enunciate dal decreto del Tribunale di Roma: il «diritto a non morire di fame», che è parte integrante del nucleo minimo e irriducibile dei diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione repubblicana e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. A prescindere dalla circostanza che questa persona abbia la residenza ed il permesso di soggiorno. L’Ordinanza della Protezione civile si è basata su semplicissime constatazioni: l’eventualità che persone si ritrovassero nell’impossibilità di procacciarsi il mangiare avrebbe potuto determinare conseguenze sanitarie e di ordine pubblico molto gravi. Da qui, l’opportunità di un intervento dell’ente più prossimo alla popolazione, volto a garantire aiuti immediati alle situazioni di immediato bisogno. L’arroccamento dietro a requisiti formali inutili e non indicativi dello stato di bisogno, come la dichiarazione dei redditi o l’Isee (facenti riferimento a condizioni economico-finanziarie dell’anno precedente) o la residenza ed il permesso di soggiorno, hanno contribuito a violare i diritti della persona e a mancare l’evidente obiettivo dell’Ordinanza.

Il giudice di Roma è stato chiarissimo nell’evidenziare che i comuni avrebbero dovuto adottare criteri molto flessibili di individuazione dei requisiti, da “personalizzare” di volta in volta, mediante prove non burocraticamente ferme a documenti, quali residenza e soggiorno, che nulla possono dire su una situazione attuale di bisogno alimentare. Esemplare è il ragionamento del giudice: “Nel caso di specie è stata data ampia dimostrazione in ordine alla effettiva dimora del nucleo familiare del ricorrente nel territorio del Comune di Roma, attraverso la documentazione scolastica e le certificazioni vaccinali dei figli minori. Si è dimostrato, inoltre, che il ricorrente aveva un lavoro presso un’attività di ristorazione, attualmente chiusa in ossequio alle note restrizioni per l’emergenza sanitaria, che era regolare quando egli era in possesso del permesso di soggiorno (v. buste paga depositate in atti), poi proseguita senza regolare contratto in attesa della regolarizzazione. E’ evidente, pertanto, che il ricorrente non può beneficiare di nessuna delle prestazioni (come la cassa integrazione) previste per i lavoratori dipendenti presso attività commerciali provvisoriamente chiuse”. E’ così che i comuni avrebbero dovuto prendere in carico ciascun caso e verificare in concreto le condizioni per accedere al contributo. In molti casi, si è rinunciato, invece alla discrezionalità amministrativa ed alla funzione istruttoria, volta ad acquisire elementi valutativi concreti, per basarsi solo su formalità. Il giudice ha inevitabilmente ritenuto che “Non vi è dubbio che sussista l’estrema urgenza di provvedere in considerazione della situazione di irreparabile pregiudizio alla quale è esposto il nucleo familiare, ed in particolare i tre minori coinvolti, che non ha i mezzi necessari a soddisfare i bisogni primari di sussistenza ed è nell’impossibilità di procurarseli in ragione dell’emergenza sanitaria in atto”, accogliendo così il ricorso contro il provvedimento che aveva negato, nel caso di specie, l’accesso al contributo ad un nucleo familiare per la sola ragione dell’assenza della residenza e del permesso di soggiorno.

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