Capacità imprenditoriali, sussidiarietà circolare e metriche adeguate: le Fondazioni devono ripartire da qui per affrontare le conseguenze della pandemia. Un’intervista al professor Stefano Zamagni
Fondazione Bracco e Percorsi di secondo welfare hanno scelto di promuovere un ciclo di approfondimenti sulle Fondazioni di impresa dialogando con studiosi ed esperti di varie discipline. Nel primo di questi confronti abbiamo chiesto al Prof. Stefano Zamagni, docente di Economia Politica all’Università di Bologna e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che cosa significa fare filantropia in questo momento storico e come cambierà in futuro l’approccio delle istituzioni che operano in questo ambito.
Recentemente lei ha parlato dell’epidemia come di un punto di rottura. Cosa ci sarà di diverso in futuro rispetto al passato? Il famoso antropologo americano Stephen Gould, l’autore della Teoria degli equilibri punteggiati – punctuated equilibria – sostiene che lo sviluppo delle comunità umane non avviene in modo lineare ma lungo il suo sentiero lo sviluppo registra dei punti di rottura – tipping points – che noi identifichiamo con la parola “crisi”. In situazioni del genere la società si trova come di fronte a una biforcazione. Due sono le possibilità di uscita dalle crisi: tornare indietro alla situazione precedente o intraprendere un altro sentiero. Ci troviamo oggi in un punto di rottura nel senso di Gould. Quali sono le due alternative aperte alla scelta dei cittadini e della comunità nazionale? La prima è quella del modello dell’alluvione. Quando c’è un’alluvione, si aspetta che l’acqua rientri nell’alveo del fiume, poi squadre di operai si mettono all’opera per sistemare gli argini, dopodiché il fiume continua a scorrere come prima, il cosiddetto business as usual. È questa la via di uscita privilegiata dai conservatori, da coloro i quali essendo misoneisti hanno paura del nuovo e quindi si preoccupano soltanto di conservare l’esistente. In questa prospettiva il ruolo della filantropia è quello puramente emergenziale, come si è visto in Italia nei mesi scorsi: scoppia la crisi, imprese piccole, medie e grandi donano a ospedali, protezione civile, Regioni, risorse per provvedere al fabbisogno di mascherine e altro. Questo modo vede la filantropia in chiave solamente additiva: si mette mano alla tasca quando succede qualcosa di grave. È una soluzione che personalmente non favorisco, perché priva di senso, cioè di direzione. La seconda via invece è quella della resilienza trasformativa, quella di chi dice “dobbiamo prendere spunto da quanto successo per aumentare la resilienza del sistema”, cioè la sua capacità di fare fronte alle proprie vulnerabilità e fragilità. Questa seconda via – assecondata da chi vuole guardare avanti – vuole il progresso in senso proprio. In tale ottica la filantropia assume un ruolo diverso, quello della “filantropia strategica”, che deriva da στρατ?ς che in greco vuol dire “ampio”, “di chi ha ampia visione”. Ecco perché parlare oggi di filantropia ha senso solo dopo che si è chiesto al proprio interlocutore se è favorevole alla prima o alla seconda via di uscita; altrimenti si fa confusione. È purtroppo quello che accade in Italia in questo momento, in cui tutti parlano di filantropia: invece bisogna distinguere la filantropia emergenziale da quella strategica. Io sono a favore di quella strategica.
Alla luce di questa distinzione, a suo avviso cosa può fare la filantropia d’impresa in un contesto di crisi come quello generato dal Coronavirus? L’anno scorso è uscito un libro che sta facendo molto discutere il cui autore è Darren Walker, presidente della Ford Foundation, tra le più antiche e grosse fondazioni d’impresa d’America. Nel libro, che si intitola “From Generosity to Justice”, Walker illustra con dovizia di particolari che in parecchie situazioni la filantropia emergenziale fa più male che bene. Detto da lui deve far pensare; bisognerebbe aprire un dibattito su questo. Lui sostiene che la filantropia praticata solo in situazioni emergenziali tende a peggiorare le disuguaglianze: ecco perché propone di passare dalla generosità alla giustizia, e praticare una filantropia il cui obiettivo ultimo è quello di ridurre le disuguaglianze sociali. Questo è il grande compito della filantropia strategica, perché se diamo alla filantropia il significato usuale le cose non progrediranno mai, come appunto insegna il modello dell’alluvione: l’anno dopo il fiume tornerà a esondare. Perché fondazioni e donatori vari non hanno dato gli stessi soldi che poi hanno elargito per comprare le mascherine e gli altri materiali prima di febbraio, quando ormai si sapeva che stava per arrivare l’epidemia? Il punto è questo: con la filantropia strategica si interviene ex-ante per rafforzare il sistema in una direzione o in un’altra; la filantropia emergenziale, invece, interviene post-factum, per lenire e non per prevenire.
In questa rinnovata condizione, come si potrebbe incentivare un approccio filantropico più strategico e attento, ad esempio, a temi come quelli dell’impatto sociale? Prima condizione: bisogna che la gestione della fondazione di impresa sia affidata a persone con capacità imprenditoriali. Se noi mettiamo a governare l’ente persone prive di queste capacità, esse svolgeranno tutt’al più il ruolo di bravi erogatori, ma non potranno certo realizzare la filantropia strategica. Se dunque vogliamo passare alla filantropia strategica bisogna cambiare le regole della governance e scegliere le persone non solo per la loro onestà e la loro passione, ma per le loro capacità imprenditoriali. Attenzione: ho detto imprenditoriali, non manageriali. Sia ben chiaro perché sono due cose ben diverse. Bisogna che a capo della Fondazioni ci siano persone qualificate per il loro spirito imprenditoriale, che non si limitino a fare correttamente “il loro dovere” nel rispetto delle regole. Piuttosto, ci vuole capacità di visione. Seconda condizione è l’impatto sociale. La filantropia strategica è finalizzata all’impatto sociale. Il che significa provocare un cambiamento nel contesto della comunità di riferimento. Se il soggetto che dona risorse ha a cuore il cambiamento, è evidente che non può essere tenuto fuori dalla gestione delle stesse. È questo un punto difficile da fare accettare, non tanto dalle fondazioni di impresa, che sarebbero ben contente di svolgere questo ruolo, quanto dagli enti pubblici che, ritenendo di essere gli unici responsabili dell’organizzazione dei servizi, pensano di dover essere anche gli unici gestori delle risorse ottenute. L’errore è nel confondere government con governance. La terza condizione è la metrica. Occorre arrivare a definire un modo di misurazione che serva ad indicare quanto il contributo donato è valso a provocare il cambiamento. Infatti, se miriamo all’impatto sociale, bisogna trovare il modo di misurarlo questo cambiamento. Va da sé che la metrica non è uguale per tutti gli ambiti in cui si vuole provocare il cambiamento: l’ambito sanitario dovrà avere una metrica diversa da quella che vale per un ambito come quello educativo o dei beni culturali, ambientali e così via. Bisogna dunque chiedere alle fondazioni di impresa che sviluppino la propria metrica, e ciò sulla base delle proprie caratteristiche, della propria storia. In caso contrario, primo, non avremo la possibilità di sapere quanto efficace sia stato l’intervento; secondo, non diamo la soddisfazione “morale” alla fondazione di sapere quanto bene ha generato. In buona sostanza, la metrica serve perché non basta avere l’intenzione di fare il bene, bisogna anche saperlo fare bene. Il bene va fatto bene. Già Aristotele (duemila quattrocento anni fa) lo diceva. Ha scritto il grande filosofo che quando si fa il bene occorre, primo, sapere perché uno è nel bisogno; secondo, l’aiuto portato deve essere proporzionale all’entità del bisogno; infine, occorre valutare gli effetti dell’aiuto prestato. Queste sono quindi le tre condizioni: capacità imprenditoriali, applicazione del principio di sussidiarietà circolare – chi fornisce risorse deve avere voce anche nel momento dell’uso delle stesse – e predisposizione di una metrica adeguata. Se le fondazioni non hanno al proprio interno le capacità adeguate si rivolgano ad altri soggetti che possono aiutarle nella fase iniziale. Mi auguro che si affrettino i tempi perché, anche nel nostro paese, si arrivi a comprendere l’importanza della filantropia strategica.
In un articolo recente, lei ha spiegato che “è evidente e pure giustissimo che ora e nel prossimo futuro le varie campagne di raccolta fondi vengano indirizzate a sostenere il comparto delle nostre strutture sanitarie, le cui carenze sono emerse in superficie in questa crisi. Dobbiamo perciò aspettarci un pesante effetto di spiazzamento a svantaggio degli enti di Terzo Settore. La distruzione o anche solo la diminuzione del nostro capitale sociale che ne conseguirebbe sarebbe un vero disastro.” Può spiegarci meglio? Sì, è legato a quanto detto. Quando si segue la logica emergenziale succede che, una volta scoppiata l’emergenza, è ovvio che tutte le donazioni vengano incanalate in quella data direzione. Questo provoca il fenomeno del crowding out, dello spiazzamento, cioè i donatori che fino ad allora donavano, ad esempio, a una cooperativa sociale, a un’associazione di volontariato o a una ONG, a un certo punto indirizzano le donazioni verso le organizzazioni del settore più colpito dell’emergenza, a scapito degli altri. E questo è pericolosissimo, perché per chiudere un buco ne apriamo altri. Dobbiamo essere avvertiti del fatto che, quando tra qualche mese la pandemia sarà finita, ci troveremo con un mondo del Terzo Settore indebolito e avvilito. E questo non promette nulla di buono, come ormai tante esperienze concrete documentano a tutto tondo e come la letteratura sul capitale sociale di tipo bridging conferma da tempo.
da secondowelfare.it, di Chiara Lodi Rizzini