L’Italia è il Paese che ha registrato, in termini di uguaglianza di genere, i maggiori progressi nel periodo 2005-2017 a confronto con gli altri Stati dell’Unione europea, guadagnando dodici posizioni (ora è quattordicesima). Tuttavia, il Paese rimane ultimo in termini di divari sul lavoro: le donne hanno meno possibilità di occupazione, diversità dei redditi e stipendi inferiori. È quanto emerge dalla relazione sul Bilancio di genere del ministero dell’Economia. Il dossier, presentato martedì 20 ottobre dalla sottosegretaria Cecilia Guerra durante l’audizione in Commissione Bilancio di Senato e Camera, utilizza 128 indicatori diversi dei divari di genere nell’economia e nella società, elaborati da istituzioni italiane (Inps e Istat) ed europee. Dalla relazione è emerso che il reddito medio delle donne rappresenta circa il 59,5% di quello degli uomini a livello complessivo. La diversità dei redditi di uomini e donne si riflette anche nel gettito fiscale in una minore aliquota media per le donne, con l’unica eccezione del più basso decimo di reddito. ‘Queste evidenze sulle disuguaglianze di genere nei redditi, quando non derivanti da vere e proprie discriminazioni sul mercato del lavoro a scapito delle donne, sono in larga parte il riflesso della “specializzazione” di genere tra lavoro retribuito e non retribuito, in virtù della quale le donne più frequentemente accettano retribuzioni inferiori a fronte di vantaggi in termini di flessibilità e orari’, ha spiegato Guerra.
Il tasso di occupazione femminile in Italia nel 2019 è ancora molto basso (50,1%) e registra una distanza di 17,9 punti percentuali da quello maschile. Molto ampi i divari territoriali, con un tasso di occupazione delle donne pari al 60,4% al Nord e al 33,2% nel Mezzogiorno. Significativo è che il contributo maggiore alla crescita dell’occupazione femminile (+1,5 punti percentuali rispetto al 2018) sia stato fornito dalle donne tra i 45 e i 54 anni, per le quali il tasso di occupazione è pari al 62,3%. Simmetricamente, il tasso di mancata partecipazione al lavoro, una misura più ampia del tasso di disoccupazione che tiene conto anche della “disoccupazione latente”, cioè di chi sarebbe disposto a lavorare ma non cerca attivamente un impiego, raggiunge livelli più elevati (33%) per le donne più giovani e livelli più bassi per la classe di età 45-54 anni (19,2%). Tale indicatore registra inoltre notevoli divari territoriali e di genere: dal 41,5% per le donne nel Mezzogiorno (a fronte del 28,8% per gli uomini), si passa a 17,6% per le donne al Centro (12,3% per gli uomini) e a 12,7% per le donne al Nord (7,9% per gli uomini).
Sul fronte della qualità del lavoro, appare in crescita la percentuale di donne che lavorano in part-time (32,9% nel 2019), involontario nel 60,8% dei casi. Inoltre, è alta tra le donne l’incidenza di lavori con bassa paga (11,5%), nonostante più di una donna su quattro sia sovraistruita rispetto al proprio impiego. Analizzando poi nello specifico la partecipazione al mercato del lavoro delle donne nella fascia di età 25-49 anni, si rileva un forte gap occupazionale (74,3%) tra le donne con figli in età prescolare e le donne senza figli, uno dei sintomi più evidenti delle difficoltà di conciliare vita lavorativa e vita professionale per le donne.
Molto allarmanti, secondo il dossier, sono anche i dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro sulle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che, oltre ad un continuo aumento dal 2011, segnalano, anche per il 2019, un fortissimo divario di genere: le dimissioni volontarie coinvolgono le madri nel 73% dei casi. Si tratta per lo più di donne giovani, con poca anzianità di lavoro, occupate prevalentemente nel terziario, con qualifiche basse. “La motivazione più ricorrente (almeno un terzo dei casi) è l’impossibilità di conciliare l’occupazione con il lavoro di cura, soprattutto in assenza di reti familiari di supporto”, ha detto Guerra, evidenziando le lacune che riguardano i servizi socio-educativi per l’infanzia nel nostro Paese: “La percentuale di bambini con meno di tre anni presi in carico da parte di asili nido pubblici raggiunge il 12,5 % nel 2017 e ancora più bassa è quella relativa ai servizi integrativi per la prima infanzia (1%)”.
Nella premessa al Bilancio di genere, la sottosegretaria ha ricordato che è possibile ridurre il divario di genere senza aumentare le spese di bilancio dello Stato, che “sono stimate nell’ordine dello 0,3% del totale (al netto delle spese per il personale) e sono concentrate in pochi ambiti”. Esiste però – ha scritto Guerra – “un’area rilevante del bilancio”, pari al 16,5% delle spese che potrebbero avere effetti indiretti, “in cui si possono produrre effetti positivi sulla riduzione delle diseguaglianze di genere senza necessariamente generare nuovi oneri”.
Ma la riduzione del gender gap, ha aggiunto Guerra, può passare anche attraverso il Recovery Plan, considerato “un’occasione irripetibile per aggredire le disuguaglianze di genere, a partire da quelle che riguardano il mercato del lavoro, con strumenti importanti quali il potenziamento dei servizi di cura, asili nido in primo luogo”. Da qui la necessità che “i piani nazionali di ripresa e resilienza collegati all’uso delle risorse Ue includano il più possibile valutazioni degli impatti di genere, accanto a quelli già previsti per la transizione ecologica e la trasformazione digitale”, ha aggiunto Guerra, evidenziando come questa scelta questa scelta dovrebbe favorire la costruzione di indicatori disaggregati di genere, da utilizzare, anche in futuro, nella valutazione sia ex ante che ex post di tutte le politiche pubbliche.
Nell’audizione è stato ricordato anche l’impatto della violenza di genere, un fenomeno che in Italia interessa una donna su tre: secondo le rilevazioni dell’Istat, infatti, il 31,5% delle donne ha subito violenze fisiche o sessuali nell’arco della propria vita, prevalentemente da parte del proprio partner o di membri della famiglia. “Il fenomeno della violenza di genere trova origine negli squilibri di potere tra uomini e donne e nel radicamento di stereotipi e norme sociali e culturali che assegnano ruoli di genere in nome di una naturale propensione di donne e uomini”, ha dichiarato Guerra. In merito alla violenza di genere, si è espresso anche il Rapporto ASviS 2020, che ha sottolineato come la Legge di Bilancio abbia dimostrato più attenzione rispetto al passato, con diversi provvedimenti, tra i quali l’aumento dei finanziamenti (4 milioni di euro) per un Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere e lo stanziamento di un milione di euro per il 2020, che raddoppieranno negli anni successivi per rafforzare la rete volta all’assistenza delle vittime di reato.
Il Rapporto ha evidenziato anche come le donne abbiano subito maggiormente la situazione di crisi, sia sul piano occupazionale, dati i settori in cui lavorano e l’instabilità dei contratti, sia per quanto riguarda l’accesso ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva e per l’aumento della violenza domestica durante il lockdown. Sulla base delle informazioni disponibili, il documento ritiene che nel 2020 la crisi peggiorerà le disuguaglianze di genere. da asvis.it
GUERRA_CECILIA_MEF_Audizione_Bilancio_di_genere_2019_Guerra_19_10_20