I GIOVANI ITALIANI LAVORERANNO SEMPRE DI PIÙ PER GUADAGNARE ANCORA POCO. REALTÀ E TENDENZE NEI DATI EUROSTAT

La porzione di dipendenti occupati per più di 50 ore a settimana è scesa in Europa, mentre dal 2012 il dato si è stabilizzato nel nostro Paese. Risultato: gli under 30, nonostante siano mediamente più istruiti dei loro genitori, conoscono fin troppo bene straordinari, turni domenicali e notturni.

«Lo scopo del lavoro è guadagnarsi il tempo libero», come diceva Aristotele la storia dell’umanità è stata sempre anche questo, una lotta per rendere la vita meno dura, il tentativo di rendere non solo più remunerative ma anche meno faticose le ore di lavoro, meno lunghe, quello di allungare il tempo da dedicare alla famiglia, ai rapporti, allo svago, di migliorarlo anche qualitativamente.

Le lotte dei movimenti dei lavoratori, fino alla conquista delle 40 ore, hanno sempre puntato a qualcosa di più dei salari. «Bread and Roses», la richiesta femminista di un secolo fa esemplifica bene il concetto.

I progressi definitivi in Occidente sono quelli del Secondo Dopoguerra, quando il diritto a un tempo libero sostanzioso, a ferie e fine settimana liberi dal lavoro viene sempre più formalizzato in contratti collettivi, soprattutto in Europa.

A far proseguire tali conquiste naturalmente ancora più che le lotte sindacali contribuisce l’enorme aumento di produttività che caratterizza l’economia dal 1950 in poi. Per produrre il valore necessario a procurarci sostentamento e svago è necessario sempre meno tempo.

E se c’è bisogno di lavorare più tempo, la notte, il weekend, queste ore sono pagate di più, e contingentate, sono l’eccezione alla regola.

Dopo decenni, o forse è il caso di dire, di secoli di miglioramenti costanti la storia non sembra più a senso unico. La fine della storia non si è manifestata neanche in economia.

Non è più vero che chi verrà dopo dovrà lavorare meno e guadagnare di più. Non in Italia perlomeno. E non poteva essere diversamente dopo i 25 anni di declino da cui veniamo, e non potrà essere diversamente dopo la pandemia di Covid.

È particolarmente duro in un Paese in cui questa sensibilità verso il tempo libero è sempre stata elevata, basti pensare all’enorme importanza data all’età della pensione, e infatti i sindacati sono sempre stati attenti a limitare, almeno per i dipendenti, le ore extra, riuscendoci in parte per quanto riguarda la percentuale di quanti sono costretti a lavorare oltre le 50 ore, che sono meno della media europea.

Al contrario dei tanti autonomi, commercianti, artigiani, partite IVA, che sono abituati a fare più ore piccole dei colleghi della gran parte degli altri Paesi, dove tra l’altro sono meno che in Italia.

Dati Eurostat

Se consideriamo invece coloro che sforano le 40 ore già l’Italia fa peggio dei vicini più ricchi e più grandi, con un 45,9% dei dipendenti che lavora tra le 40 e le 44 ore, contro il 15,2% della Francia delle 35 ore, o il 41% della Germania.

Ma il dato più significativo è quello che riguarda il trend più recente, piuttosto indicativo anche di quello futuro, che vede il nostro Paese muoversi in modo piuttosto divergente rispetto alla media europea: dal 2012 si è interrotto in Italia quel calo della porzione di dipendenti occupati per più di 50 ore a settimana che invece è continuato nell’Unione europea e in Germania, tanto che quel gap che 9 anni fa risultava essere di un paio di punti percentuali, non pochi se parliamo di percentuali inferiori al 5% o 10%, ora appare quasi nullo.

A maggior ragione tra gli autonomi: se nel 2003 quelli che dovevano fare così tante ore extra erano circa il 10% in meno della media europea nel nostro Paese, nel 2019 erano invece il 27,5%, sostanzialmente stabili, contro il 27,1% medio e il 24,4% dei lavoratori autonomi tedeschi, tra i quali invece 18 anni ben il 40,6% superava le 50 ore.

La causa la sappiamo, e il dato tedesco è esemplare: la produttività stagnante. Quando come in Germania si riesce a creare più valore con lo stesso ammontare di capitale e di ore di lavoro vi è meno bisogno di fare straordinari o le ore piccole per guadagnare in modo dignitoso, quando ciò non avviene, come in Italia, si è costretti a lavorare di più, e non tanto per fatturare di più o ricevere stipendi migliori, ma solo per non perderci.

Un’altra dimostrazione sta nel fatto che tra le varie professioni quelle che hanno visto il trend più divergente rispetto alla media europea sono quelle che più hanno sofferto la stagnazione della produttività, ovvero quelle non qualificate e quelle legate alle attività commerciali e ai servizi, si va dai magazzinieri ai camerieri ai commessi, occupati in maggioranza in piccole realtà, in cui magari è complesso e non conveniente assumere più personale per lavorare qualche ora in più, preferendo dilatare il tempo di lavoro di chi c’è già.

La divergenza rispetto all’Unione europea tra l’altro non a caso coincide con il periodo della crisi finanziaria

Ma i dati più eloquenti sono quelli che riguardano la percentuale di quanti sono costretti a lavorare di notte o la domenica.

Anche in questo caso a fronte di una media, almeno per quanto riguarda i dipendenti, simile o inferiore a quella europea, vi è stata un’inversione di tendenza in occasione della crisi, con un incremento di quanti hanno dovuto rinunciare al classico lavoro dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 18 (o dalle 8 alle 17).

Ma qui si nota un elemento ulteriore: tale cambiamento interessa quasi esclusivamente i più giovani. I numeri sono significativi, prima del 2012 i giovani con meno di 30 anni che lavoravano di notte erano meno della media, nel 2019 erano il 14,9% contro il 12,4% complessivo.

Ancora più forte il divario nell’ambito dei lavoratori domenicali, anche perché si tratta di un trend iniziato ben prima. Fino al 2003 tra i più giovani erano meno del 20%, in linea con la media nazionale, nel 2019 erano diventati il 29,4% mentre la media era cresciuta solo di un paio di punti.

I più giovani, tra cui molti immigrati, sono stati i protagonisti e le braccia economiche di quel boom del settore della ristorazione e del turismo e di altri ambiti dei servizi a basso valore aggiunto che negli ultimi 15 anni ha caratterizzato un po’ tutto l’Occidente, è vero, ma in Italia in particolare senza avere la possibilità di beneficiare di redditi in aumento nel resto dell’economia, e dovendo quindi ricorrere a salari bassi anche a fronte di orari meno classici, bassi salari che soprattutto i più giovani hanno accettato, volenti o nolenti.

Commercio, ristorazione, turismo, appunto, gli stessi settori che la pandemia ha messo in ginocchio molto più degli altri. Appare ragionevole pensare che per evitare la disoccupazione di massa, soprattutto tra i giovani, quando la cassa integrazione straordinaria sarà finita, la disponibilità a lavorare in condizioni più dure, il weekend, la sera, la notte, per paghe uguali o più magre di prima, sarà ancora più ampia.

Alla faccia di chi perpetua gli stereotipi sui giovani smidollati, sulle nuove generazioni che non hanno voglia di rimboccarsi le maniche.

Questa generazione di giovani si sta rimboccando le maniche e sta facendo sacrifici molto superiori a quella dei loro padri, nonostante siano più istruiti e titolati.

Chi ora non lo riconosce, tra cui la maggioranza della classe dirigente del Paese, chi non capisce l’angoscia e il cruccio dei 20enni e dei 30enni, aumentati negli ultimi 15 anni e culminati con la pandemia, è parte del problema.

da linkiesta.it, di Gianni Balduzzi

Employment and social development in Europe-KE-BH-20-003-EN-N

Precedente

APPLICAZIONE DELLA MAGGIORAZIONE DEL PREMIO INDIVIDUALE: LE INDICAZIONI OPERATIVE DELL’ARAN

Successivo

TOSAP E COSAP: ESONERO FINO AL 31 MARZO 2021 PER I PUBBLICI ESERCIZI COLPITI DALLE RESTRIZIONI ANTI-COVID