L’ordinanza della Corte di cassazione n. 2194/2021, ha confermato che laddove due coniugi non risiedano anagraficamente nella medesima abitazione, la stessa non è abitazione principale ai fini dell’imposta municipale propria.
La controversia
La questione affrontata dalla Corte riguarda il caso di un’abitazione per la quale il Comune aveva disconosciuto la spettanza delle agevolazioni previste dalla norma Imu per l’abitazione principale, poiché la contribuente e il suo coniuge risiedevano anagraficamente in due Comuni diversi e quindi l’abitazione non poteva essere quella di residenza anagrafica e dimora abituale del nucleo familiare. La Commissione tributaria regionale aveva accolto la tesi della contribuente, sostenendo che non poteva ritenersi che la dimora abituale della famiglia fosse quella ricollegabile alle risultanze anagrafiche del marito ovvero quella ricollegabile alle risultanze anagrafiche della moglie. In più, la Commissione riteneva che gravasse sull’ente impositore il compito di dimostrare che la contribuente avesse già beneficiato dell’agevolazione prevista per la «prima casa» con riguardo all’abitazione di residenza del coniuge. La Corte di cassazione, seguendo l’orientamento dalla stessa espresso, ha ritenuto invece che l’esenzione prevista per «la casa principale» dal Dl 201/2011, articolo 13, comma 2, richiede non soltanto che il possessore e il suo nucleo familiare dimorino stabilmente nell’immobile, ma altresì che vi risiedano anagraficamente.
L’abitazione principale nell’Imu
La sentenza consente di affrontare la questione posta dall’articolo 13, comma 2, del Dl 201/2011 (oggi sostituito dall’articolo 1, comma 741, della legge 160/2019), laddove lo stesso ha definito abitazione principale ai fini dell’Imu una unità immobiliare abitativa nella quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. La disposizione ha innovato sensibilmente la previgente disciplina dell’Ici, allorquando l’articolo 8, comma 2, del Dlgs 504/1992 definiva abitazione principale quella di dimora abituale del possessore e del suo nucleo familiare, costituendo la residenza anagrafica una mera presunzione della dimora.
Nell’Imu l’abitazione principale è solo quella in cui si realizza la contemporanea destinazione della stessa a residenza anagrafica del possessore e a sua dimora abituale. Se manca anche uno solo di questi requisiti, l’unità immobiliare non può definirsi abitazione principale. Ad esempio, un’abitazione in cui il possessore dimora abitualmente ma nella quale non ha la sua residenza anagrafica non può considerarsi abitazione principale ai fini Imu, anche se il contribuente possiede una sola abitazione in tutto il territorio nazionale. D’altronde spesso nella prassi il concetto di abitazione principale è erroneamente confuso con quello di «prima casa», codificato dalle ben diverse norme agevolative previste nell’Iva e nell’imposta di registro.
Inoltre, la disposizione vigente sin dal 2012 richiede un ulteriore requisito affinché l’abitazione possa considerarsi «principale» ai fini Imu. Vale a dire che la medesima sia destinata non solo a dimora e residenza anagrafica del possessore, ma anche del suo nucleo familiare. In particolare, sulla scorta delle norme civilistiche, la norma postula che nel caso di contribuenti coniugati l’abitazione sia destinata a residenza anagrafica e a dimora abituale di entrambi i coniugi.
Non a caso, il medesimo comma 2 dell’articolo 13 del Dl 201/2011 (e oggi il comma 741 della legge 160/2019) ha evidenziato che, in via eccezionale rispetto al principio generale, nell’ipotesi in cui i componenti del nucleo familiare abbiano residenza anagrafica e dimora abituale in due diverse abitazioni ubicate nello stesso comune, una di esse si considera abitazione principale (pur mancando dei requisiti di legge). Ma laddove invece due coniugi risiedano anagraficamente in comuni differenti, l’eccezione alla regola generale non opera, facendo venir meno l’agevolazione di legge. Con l’effetto, apparentemente paradossale, che il nucleo familiare non possa beneficiare dell’attuale esenzione dell’Imu per nessuna delle abitazioni possedute dai coniugi.
Si badi bene che la rigorosa lettura della norma rende del tutto irrilevanti le motivazioni che hanno condotto i due coniugi a assumere residenze separate. Pur se a suo tempo il ministero dell’Economia e delle finanze, nella circolare n. 3/df/2012, adottò una posizione molto più estensiva, ammettendo la possibilità di riconoscere il beneficio di legge ove sussistessero valide motivazioni per la separazione delle residenze dei coniugi. Posizione oggi smentita dalla Corte di cassazione e che tuttavia potrebbe configurare le «obiettive condizioni di incertezza» che, a norma dell’articolo 6 del Dlgs 472/1997 e dell’articolo 10 della legge 212/2000, si pongono alla base per la disapplicazione delle sanzioni (pur se parte della giurisprudenza ritiene che spetti solo al giudice e non anche all’amministrazione verificare la sussistenza delle predette condizioni).
La rigorosa interpretazione della norma ha già avuto precedenti conferme da parte della Suprema Corte (ordinanze n. 4166/2020, n. 4170/2020 e n. 20130/2020 e più recentemente ancora con la pronuncia n. 2344/2021), la quale non poteva che discostarsi dalla rigorosa interpretazione letterale della norma, in ossequio al principio del divieto di interpretazione analogica o estensiva delle norme agevolative in campo tributario. La Corte di cassazione aveva ripetutamente affermato questo principio anche nell’Ici, pur riferendosi in questo caso alla mancata coincidenza della dimora abituale dei coniugi (ordinanze n. 12050/2018 e n. 6634/2019).
Chiaramente il principio sopra espresso presuppone che non ci sia stata un frattura del rapporto coniugale, tale da far venire meno lo stesso concetto di nucleo familiare. Frattura che la giurisprudenza più rigorosa ha richiesto sia formalizzata (con la separazione legale o consensuale o con la cessazione degli effetti del matrimonio) Cassazione n. 21072/2019 e 21069/2019, mentre un più recente orientamento (Cassazione n. 24296/2020) ha ammesso che possa essere anche solo una frattura «di fatto», vale a dire non ancora formalizzata. In questo caso la problematica si sposta sull’onere probatorio che si ritiene gravante sul contribuente, il quale dovrà essere in grado di dimostrare l’avvenuta predetta «frattura di fatto».
da ntplusentilocaliedilizia.ilsole24ore.com, di Stefano Baldoni