Formazione digitale di base per l’80% degli adulti italiani. Ma anche formazione continua per i lavoratori. Sono queste le priorità indicate dal XXIII Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione collettiva 2021 del Cnel, secondo cui non basta aumentare le risorse, “come fa opportunamente il Pnrr – si legge nel testo -, ma serve adeguare le strutture della formazione, a cominciare dalla loro organizzazione ancora spesso ispirata a modelli fordisti, le modalità dell’apprendimento, nonché la preparazione e la cultura stessa dei docenti”.
L’emergenza italiana delle basse qualifiche
Il rapporto accende i riflettori sui bassi livelli di qualifiche dei lavoratori italiani, accompagnati dal persistere di popolazione in età da lavoro senza appropriati titoli di studio. Un’emergenza che sottolinea la necessità di investimenti in formazione, con una attenzione particolare alla formazione continua, “aspetto di cui – sottolinea il Cnel – gli attuali provvedimenti poco discutono”.
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Se è infatti vero che le politiche attive del lavoro debbano integrarsi con quelle formative per facilitare l’ingresso al mondo del lavoro, solo una azione funzionale alla formazione periodica e ricorrente dei lavoratori può garantire un upskilling e un reskilling utili alla maggiore competitività delle Pmi italiane.
Segnali di ripresa, ma donne e giovani penalizzati
“Il Paese è in condizioni migliori rispetto al dicembre 2020, le debolezze del nostro mercato del lavoro, accentuate dalla pandemia risultano in parte superate – dice il presidente del Cnel, Tiziano Treu -. Tutti i dati mostrano segnali di una ripresa economica consistente, anzi superiore alle aspettative e alle medie europee: resta tuttavia molta strada da fare per recuperare i posti di lavoro perduti soprattutto da donne e giovani”.
Serve ripensare le regole, spiega Treu, compiere uno sforzo di “ingegnosità istituzionale e sociale”. Il Rapporto Cnel mette in evidenza la debolezza dei percorsi formativi, che pone l’Italia in cima alle classifiche europee per il maggior guadagno in termini di occupazione che deriverebbe da una migliore formazione e da un piu’ efficiente utilizzo del capitale umano.
L’Italia si trova infatti a fondo classifica europea per il numero di quindicenni in possesso di competenze considerate indispensabili per un solido percorso di vita nel XXI secolo, oltre a una delle più basse incidenze di laureati e una delle più elevate quote di cittadini fra i 18 e i 24 anni privi di titolo di scuola secondaria superiore.
Il rapporto richiama quindi la necessità di rafforzare e aggiornare il programma garanzia giovani anche alla luce delle indicazioni europee, di far funzionare i nuovi strumenti di politica attiva predisposti dal Pnrr e dalla legge di bilancio.
Il Cnel sottolinea poi che una delle eredità che sembrano affermarsi dopo la crisi del Covid-19 è l’aumento del già ampio numero di lavoratori potenziali che hanno difficoltà a inserirsi nei circuiti produttivi, mentre al contempo le ampie oscillazioni dell’attività economica, e conseguentemente della domanda di lavoro, prodottesi a seguito della pandemia, hanno determinato problemi di scarsità di manodopera in diverse imprese che si sono ritrovate nella necessità di ampliare gli organici in tempi rapidi, eventualmente anche a seguito della riduzione attuata nei mesi precedenti.
Lo sviluppo degli “Orange jobs”
Treu si è però detto certo che “i comparti della ‘green’ e ‘white’ economy spalancheranno le porte a nuove professionalità incentivando l’occupazione e rivitalizzando l’economia. Le professionalità necessarie per la transizione ecologica, le professioni sociali e sanitarie, i servizi alla persona e di educazione conosceranno un exploit e il Piano di Ripresa e resilienza, genererà – ha detto il presidente del Cnel, “occasioni di acquisizione di nuove competenze anche nei settori dell’agricoltura e delle professioni digitali, gli orange jobs”.
Giovani ancora inchiodati al precariato
Purtroppo sono diffuse ed elevate, sottolinea Treu, “le forme di lavoro precario, come il part-time involontario e i contratti a termine. Qui i caratteri negativi non consistono solo nella quantità di lavori temporanei, ma nella loro spesso brevissima durata che impedisce ogni prospettiva di sviluppo, e per altro verso nelle ridotte possibilità di trasformarli in contratti a tempo indeterminato o nei tempi lunghi della possibile trasformazione”. “Questo – ha osservato – è un segno drammatico della incertezza delle prospettive che pesa anche sulle imprese disponibili ad assumere. Per contrastare queste forme di precarietà possono essere solo parzialmente utili i vari tipi di incentivi alla stabilizzazione, anche più durevoli e mirati di molti disposti in passato”.
I più giovani hanno avuto il calo occupazionale più marcato nella crisi pandemica ma con “la veloce risalita” del lavoro a termine hanno recuperato nella prima parte dell’anno: tra gennaio e giugno 2021 per i 15-34enni c’è stato un aumento di 300mila occupati; per i 35-49enni di 64mila mentre il numero dei lavoratori più anziani è salito di 194mila occupati, risultando “gli unici che per il momento hanno recuperato i livelli pre-pandemia”.
A dicembre 2021 risultano depositati al Cnel 933 contratti collettivi nazionali di lavoro vigenti per i lavoratori del settore privato. “Il rimbalzo c’è – dice il ministro del Lavoro, Andrea Orlando – si sta definendo però con una presenza di contratti a tempo determinato, precari, molto forte. Dovremmo non attendere la fine dell’emergenza per affrontare il tema della precarietà. Se non lo affrontiamo, ci sono corollari sociali e previdenziali che rischiano di diventare irrecuperabili”.