L’emergenza-coronavirus ha evidenziato il ritardo dell’Italia nell’adozione delle reti a banda larga, e allo stesso tempo ha reso evidente ad ampi strati della domanda – oltre che a molti osservatori – l’utilità se non l’essenzialità di molti servizi digitali. Così ora, nell’ambito di politiche economiche espansive ipotizzate per mitigare gli effetti della recessione, gli investimenti nelle reti di telecomunicazioni emergono come elemento centrale per lo sviluppo dei mercati digitali. E nel contempo riprende il dibattito sull’operatore di rete unico.
È utile però mettere in prospettiva queste tematiche e comprendere che le scelte devono inserirsi in un contesto complesso dove non esistono soluzioni semplici o nodi gordiani, ma semmai si consolida il bisogno di politiche articolate, attente, coordinate e complesse.
Le ragioni del ritardo Negli ultimi anni il ritardo nella dotazione di reti a larga banda appare prepotentemente. Siamo nelle ultime posizioni in Europa sia alle basse sia alle alte velocità, come si può vedere dalla tabella 1 che riporta per semplicità alcuni paesi europei. Ma non è sempre stato così: nei primi periodi della diffusione, cioè negli anni ‘90, l’Italia, pur non essendo davanti a tutti gli altri, si trovava comunque nel gruppo di testa per diffusione.
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Col tempo questa collocazione si è persa sia per ragioni di offerta sia di domanda. Sul lato dell’offerta Telecom Italia, dopo la privatizzazione, è stata comprata per diverse volte a debito da parte delle società acquirenti, così da rendere necessario l’utilizzo del reddito operativo per ripagare i debiti contratti, con conseguenze negative sugli investimenti.
D’altro canto le prevalenti piccole imprese italiane non avevano le economie di scala per sviluppare servizi digitali avanzati, che avrebbero incrementato la domanda di connessioni. Nel frattempo la pubblica amministrazione ha avuto l’illusione che pochi siti malfunzionanti o applicazioni digitali che ricalcavano le farraginose procedure tradizionali potessero essere attivatori di cambiamento: come discuteremo successivamente, a che pro investire in connessioni digitali quando per concludere una procedura bisogna comunque recarsi nell’ufficio della Pa?
Il tema è stato molto trascurato nel dibattito pubblico, ma a conti fatti i cittadini e le imprese italiane hanno espresso meno domanda di servizi e connessioni digitali rispetto ad altri paesi, come si evince ancora dalla tabella 1: le percentuali di copertura per tutte le tipologie di rete broadband sono leggermente superiori alla media europea mentre le percentuali di diffusione (abbonamento) sono drammaticamente inferiori.
Per quanto riguarda le imprese, contribuiscono a spiegare il ritardo la ridotta dimensione, la presenza in settori tradizionali e la scarsa attenzione alla produttività. Per i cittadini invece vale la generale arretratezza dei consumi informativi, i 15 punti di gap rispetto all’Europa nella percentuale di diplomati, i consumi culturali ridotti, la scarsa lettura dei giornali e naturalmente la ridotta alfabetizzazione informatica: tutti questi fattori potevano essere solo parzialmente compensati dalla diffusione dei telefoni cellulari che ha dato l’illusione di una via italiana alla digitalizzazione.
Quale futuro per la concorrenza? In Italia il disegno del mercato delle telecomunicazioni privilegiava l’idea di una concorrenza strutturale tra operatori integrati verticalmente. All’inizio la regolamentazione del mercato liberalizzato prevedeva servizi intermedi ceduti da parte del vecchio monopolista integrato verticalmente, nella speranza che i nuovi entranti investissero in infrastrutture al crescere della domanda. Il passaggio successivo è stato la creazione “dall’alto” di un operatore wholesale, Open Fiber, e un nuovo disegno del mercato basato su zone bianche (non servibili commercialmente), zone grigie e zone nere (a concorrenza completa).
La concorrenza è cresciuta e l’adozione di fibra è aumentata, ma con diverse criticità. Nelle zone bianche le gare sono state vinte da Open Fiber, mentre Telecom Italia ha cominciato a investire in reti a larga banda per evitare di perdere clienti a favore dei concorrenti. Per contro l’Agcom ha calcolato che in 26 città nelle zone nere vi è un eccesso di offerta, in quanto si sommano le capacità in fibra di Open Fiber (che ha acquisito Metroweb), di Telecom Italia e di altri operatori. Mentre nelle zone grigie – dove spesso Telecom Italia è di fatto monopolista nella banda larga – gli investimenti in fibra talvolta appaiono più rallentati.
Come ben argomentato da Michele Polo qualche settimana fa, al lato dell’offerta si contrappongono due temi, che spingono in direzioni diverse rispetto all’idea di una fusione tra le reti di Tim e Open Fiber. La rete a banda ultra-larga è un monopolio naturale, cioè una situazione in cui i costi medi scendono strutturalmente se la produzione si allarga, a motivo della preponderanza del costo fisso della rete sui costi variabili. Sotto questo profilo è tipicamente più efficiente avere un solo produttore e una sola rete, così da sfruttare i vantaggi di costo e trasferirli ai consumatori grazie a una regolamentazione pubblica che eviti comportamenti monopolistici. Dall’altro lato – anche in presenza di un regolamentatore che “fa il suo dovere” – la presenza di più operatori che si fanno concorrenza tra loro dovrebbe spingerli a investire in innovazione per togliere fette di mercato ai concorrenti.
A oggi è poco probabile che Telecom Italia accetti in una negoziazione commerciale di separarsi dalla sua rete, per il rischio di perdere valore come operatore disintegrato verticalmente e nel contempo di rimanere appesantito da una struttura occupazionale troppo pesante. Del resto il semplice ritorno al passato di un operatore monopolista integrato verticalmente appare poco percorribile. In un momento in cui può essere utile per molte ragioni una forte accelerazione degli investimenti infrastrutturali per far fare un salto di qualità alla nostra rete e avvicinarsi agli obiettivi di Europa 2020, diventa possibile immaginare un intervento pubblico più diretto, magari con una governance che coinvolga gli operatori e un percorso che salvaguardi la stabilità aziendale di Telecom Italia: la presenza pubblica nel settore va gestita con pragmatismo.
Fare tesoro dell’esperienza del lockdown Durante il lockdown l’esperienza di smart working, lezioni a distanza e servizi commerciali e di intrattenimento consumati virtualmente ha certamente sollecitato la domanda, ma se si vuole che si consolidino e si espandano le reti a larga banda come elemento di modernizzazione del paese occorre accompagnare gli investimenti infrastrutturali con politiche della domanda articolate e attente alle dinamiche di mercato. Che includano cioè interventi di breve periodo (per esempio i voucher), interventi di alfabetizzazione informatica e sviluppo di applicazioni pubbliche che partano effettivamente dagli utenti e non dalla conservazione delle procedure esistenti.
Da un lato meccanismi come i voucher permettono di abbassare il costo netto pagato dagli utenti, lasciandoli nel contempo liberi di scegliere l’operatore sul mercato: una “spinta gentile” (ma non a costo zero) per indurre i cittadini a scegliere in maniera permanente una connessione a velocità molto più elevata. In questo modo si tiene conto delle esternalità positive su chi interagisce con tali utenti (se la video-chiamata con lo studente non “salta più”, anche l’insegnante ne trae un indubbio vantaggio). Dall’altro lato, se i cittadini possono gestire i loro rapporti con la pubblica amministrazione non dovendo passare mai dall’ufficio fisico (o dalla telefonata con chi si conosce dentro la Pa), la domanda per connessioni digitali veloci e robuste riceve una spinta ulteriore e indiretta.
Riteniamo dunque cruciale valutare con altrettanta attenzione il lato della domanda, ovvero la velocità e l’ampiezza con cui la connessione Ftth (insieme con la Fttc) è stata scelta dai consumatori, e in particolare dalle famiglie: in che misura esse hanno abbandonato la vecchia Adsl per passare alla fibra ottica? È banale osservare che le economie di scala che sono intrinsecamente connesse a un monopolio naturale possono realizzarsi se e solo se “c’è abbastanza domanda”. Ma in che misura i consumatori sono in grado di comprendere i benefici di una connessione internet ultra-veloce? In questo caso poi si tratta molto probabilmente di un cosiddetto experience good (o service), un bene o servizio cioè per cui l’unico modo efficace per “essere informati” consiste nel provarlo, in quanto il racconto da parte di altri sui benefici di una connessione ultra-veloce non è sufficiente per farci valutare bene l’utilità che ne potremmo ricavare e dunque la nostra disponibilità marginale a pagare.
Qui entra in gioco prepotentemente l’esperienza del lockdown e del distanziamento sociale a motivo del Covid-19: praticamente tutti noi abbiamo dovuto imparare a gestire “in remoto” attività che tipicamente svolgiamo in presenza, come una riunione o una presentazione. E dunque abbiamo potuto sperimentare “per assenza” (come insegnato dai filosofi sensisti come Pietro Verri) che cosa significhi avere una connessione internet insufficiente, che rallenta il video e interrompe il sonoro, quando non fa “saltare” direttamente la chiamata.
È sufficiente questa percezione dell’importanza della banda ultra-larga “per assenza” come forma quasi sadica di experience good? Come abbiamo discusso sopra, riteniamo necessaria una strategia organica focalizzata sulla spinta della domanda: una strategia che non si esaurisca nel breve periodo, che passi attraverso i voucher e la digitalizzazione della Pa e che non escluda interventi pubblicitari da parte dello stato (una vera “pubblicità progresso”, di cui monitorare gli effetti).
da lavoce.info, di Marco Gambaro e Riccardo Puglisi