Chi scrive è nata e cresciuta, per così dire, in uno dei dipartimenti universitari italiani più attivi in tema di pianificazione dei parchi: la tesi che vi viene sostenuta da decenni e con forza è che, invertendo la rotta novecentesca, bisogna pianificare i “vuoti” con maggior attenzione dei “pieni”. Le ricorrenti e recenti catastrofi dovute al cambiamento climatico, insieme agli allarmanti e crescenti dati sul consumo di suolo, potrebbero far sembrare tale tesi ormai globalmente ovvia, invece così non è. Come docenti universitari ce ne si accorge molto bene insegnando a studenti internazionali che provengono da Paesi in cui la tutela dei parchi non esiste (o esiste ma è assai meno rispettata): portano in classe violente immagini di speculazioni edilizie in aree naturalistiche di pregio nei propri Paesi d’origine, insieme a racconti di corruzione e mala gestione del potere. Una premessa a questa riflessione è perciò necessaria: problematizzare le complesse questioni legate a forme innovative di gestione dei parchi non significa né rinnegare l’idea che la pianificazione dei parchi sia di fondamentale importanza, né svalutare il lavoro che quotidianamente svolgono i soggetti istituzionalmente preposti alla conservazione e alla gestione dei parchi. L’obiettivo è, invece, quello di ragionare sull’Amministrazione condivisa dei parchi come beni comuni. Citando il titolo dell’ultimo libro di Gregorio Arena mi chiedo e chiedo a voi che leggete: chi sono i “custodi della bellezza” dei parchi?
Chi sono i “custodi della bellezza” dei parchi intesi come Beni comuni?
Se consideriamo i piccoli e grandi parchi come Beni comuni, e non solo come aree di proprietà pubblica (o privata), i responsabili della loro cura non saranno solo soggetti pubblici (o privati). Già 13 anni fa la Commissione Rodotà nominava espressamente i parchi come Beni comuni, insieme alle foreste e ai boschi, ai fiumi e ai laghi, alle zone montane di alta quota e ai ghiacciai, alle riserve ambientali lungo le coste, alla fauna selvatica e alla flora tutelata, ai paesaggi e alle aree archeologiche, culturali e ambientali tutelate. Si sosteneva cioè la tesi che i parchi sono alla base dell’esercizio dei nostri diritti fondamentali, del nostro libero sviluppo come persone. Si diceva che bisogna garantirne la fruizione da parte di tutti e in ogni caso, compatibilmente con l’esigenza prioritaria della loro preservazione a vantaggio delle generazioni future. Dentro a questa cornice di senso generale si inquadrano numerose esperienze che vedono nascere, maturare ed evolvere inedite alleanze tra abitanti attivi e amministratori pubblici innovatori per la cura condivisa dei parchi come beni comuni. I custodi della bellezza dei parchi intesi come beni comuni hanno profili diversi: lavorano con ruoli tecnici nelle amministrazioni pubbliche locali, hanno responsabilità politiche nelle stesse, sono membri di associazioni, fanno parte di gruppi informali molto numerosi o formati da poche persone attive, a volte sono addirittura singoli abitanti che si attivano da soli.
Due ostacoli ricorrenti: “autorità autoritative” e abitanti offesi, sfiduciati, non (più) capaci, disinteressati
Nel corso degli anni Labsus ha ospitato riflessioni generali sulla governance dei parchi come Beni comuni, alternate al racconto di straordinarie esperienze in cui la gestione condivisa sembra davvero funzionare. Alcune città, come Cesena, proprio a partire dai parchi urbani stanno sperimentando un nutrito uso dei Patti di collaborazione per alimentare le relazioni sociali dopo il lockdown. Altre realtà stanno riflettendo su percorsi partecipativi nella prospettiva di cura e valorizzazione condivisa per un ripensamento radicale delle modalità e delle iniziative, finalmente co-progettate: ad esempio il Parco dello Stirone e del Piacenziano. Più che domandarci quale sia il comune denominatore di tali esperienze di Amministrazione condivisa così diverse (per storia, contesto e altri elementi) potremmo notare come in esse manchino due elementi che, al contrario, ricorrono in molti casi in cui i parchi sembrano in crisi o, per così dire, bloccati. Notiamo anzitutto che le autorità preposte alla salvaguardia e tutela di questi parchi pilota hanno un’attitudine improntata alla condivisione della cura del parco e non impongono la propria autorità agli altri attori in gioco. Come Rapoport metteva in evidenza già mezzo secolo fa, il cuore della questione sono le interazioni di potere che possono lavorare (o meno) su processi in cui i valori, intesi sia come vantaggi che come risorse, vengono (o no) distribuiti a gruppi o individui in una certa società presente in un dato territorio. I parchi costituiscono un insieme di opportunità e di rischi: in che modo si gestiscono? In secondo luogo e reciprocamente, consideriamo l’attitudine degli abitanti, che a loro volta può essere o meno collaborativa, anche in relazione a quanto autoritative sono state, nel corso del tempo, le istituzioni preposte alla salvaguardia e alla tutela dei parchi.
È assai alto il prezzo che si rischia di pagare quando gli abitanti vengono esclusi dalla possibilità di prendersi cura dei parchi, con comportamenti che Foucault avrebbe definito di “potere e controllo” o, più banalmente, trascurando l’importanza della partecipazione di tutti alla costruzione di regole condivise per la vita umana, vegetale e animale. Un esempio paradigmatico riguarda la cura dei sentieri pedonali e ciclabili in zone montane così come delle strade bianche di campagna o di pianura. Parlando con alcuni abitanti che risiedono in aree limitrofe ai parchi di area vasta emerge la loro frustrazione nell’essere stati allontanati dalla cura di questi percorsi, la loro sfiducia nel soggetto formalmente preposto alle azioni di manutenzione quando i percorsi risultino impraticabili. Vi è poi la maggioranza dei cittadini che, legittimamente, ritiene che pagando già le tasse non vuole avere alcun ruolo attivo. Nell’esperienza sul campo di Labsus spesso c’è chi, culturalmente, non conosce il diritto a potersi prendere cura dei beni comuni, quindi anche dei parchi come tali. Ma vi è un altro punto di fondamentale importanza: dopo decenni che la cura viene delegata al soggetto pubblico o a un soggetto gestore, gli abitanti non sono nemmeno più capaci di contribuire, anche se vorrebbero.
Patti complessi e sfide regionali
Lo scorso maggio abbiamo raccontato i risultati di un processo in corso da quattro anni in un parco in provincia di Frosinone “apripista” di una serie di possibili esperienze che potrebbero permettere a molte comunità attive nella cura dei parchi di prendersi cura anche di immobili presenti nelle aree tutelate. Ribadiamo che, nella logica dell’Amministrazione condivisa dei beni comuni, l’amministrazione c’è sempre: come nel patto complesso sulla “Casetta degli alberi sul Monte Merola” c’è il comune di Pontecorvo insieme ai diversi attori della società civile, così nei patti che potrebbero ispirarsi ad esso sarebbero necessariamente presenti le istituzioni responsabili della gestione dei parchi. Non è un caso che l’immagine che introduce il nostro commento alla legge per i Beni comuni della regione Lazio ritrae due ciclisti che pedalano in un parco: un concetto ampio di Amministrazione condivisa, anche in relazione a un tema di pianificazione di area vasta come sono i parchi, che ci fa sperare che tra i contraenti di Patti semplici e complessi possano essere sempre più frequenti soggetti pubblici anche sovra-locali.
Continueremo lo sguardo riflessivo su questo argomento con una prossima puntata in cui chiederemo ad amici internazionali di Labsus come si stanno attivando all’estero le comunità e gli amministratori che intendono a loro volta i parchi come Beni comuni. da labsus.org, di Daniela Ciaffi